Una via purifica una illumina una conduce a Dio (San.G.PaoloII)

«“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». Gesu'

 
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FORUM 14 - MEDIA, SOCIAL E IL GRIDO DELLA PACE

Ultimo Aggiornamento: 21/09/2023 23:09
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Città: CORIGLIANO CALABRO
Età: 55
Sesso: Maschile
21/09/2023 23:09



Flavio Arzarello

Public Policy Manager, Meta
 biografia

Media, social e il grido della pace

● Vorrei innanzitutto ringraziare la comunità di Sant’Egidio non solo per avermi invitato
qui, oggi, permettendomi di contribuire a un dibattito così importante, ma più in
generale, per la sua opera quotidiana “di mediazione per la pace” ricordata anche dal
Presidente Mattarella.
● Sono fiero di poter dire che non è la prima volta che la mia azienda collabora con la
Comunità di Sant’Egidio avendo ospitato qualche mese fa, negli spazi del nostro
community hub Binario F, un ciclo di incontri sullo humanitarian journalism rivolti agli
studenti delle scuole secondarie superiori e ai primi anni di università.
● Il grido della pace è un titolo molto evocativo, soprattutto oggi che, come ha
affermato il Presidente Mattarella, l’“aggressione” russa ci ha “drammaticamente
ricordato la fragilità” di un “patrimonio – quello della pace – che in Europa abbiamo
dato per scontato.”
● Nel mio contributo vorrei parlare di ciò che la rete può fare per promuovere una
cultura di pace e di come i social media possono favorirla, a partire dai contesti più
difficili, concentrandomi su quanto fatto da Meta in Ucraina negli ultimi mesi.
● Il percorso dell'azienda che rappresento comincia nel 2004 con la creazione di
Facebook – ormai solo uno dei nostri strumenti che miliardi di persone in tutto il
mondo utilizzano ogni giorno per comunicare. L’obiettivo, fin dall’inizio, era quello di
dare alle persone un mezzo tramite il quale potersi esprimere liberamente e
connettersi con i propri cari o la propria comunità, riducendo le distanze e
oltrepassando le barriere fisiche.
● Il superamento di queste limitazioni esprime bene la natura di internet, nato come
strumento di libertà che, negli anni, si è rivelato quale straordinario veicolo di
partecipazione democratica e mezzo essenziale per avvicinare le persone.
● Lasciatemi ricordare un passaggio scritto da Papa Francesco lo scorso anno in
occasione della Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali: “La rete, con le sue
innumerevoli espressioni social, può moltiplicare la capacità di racconto e di
condivisione: tanti occhi in più aperti sul mondo, un flusso continuo di immagini e
testimonianze. [Essa] ci dà la possibilità di una informazione di prima mano e
tempestiva: pensiamo a certe emergenze in occasione delle quali le prime notizie e
comunicazioni di servizio alle popolazioni viaggiano proprio sul web.”
● Quando pensiamo ai social media, ciò che probabilmente viene in mente alla
maggior parte di noi è uno strumento per condividere i nostri momenti felici,
pubblicare le foto delle vacanze, chiedere informazioni al Gruppo del vicinato.
Spesso dimentichiamo invece quanto questi mezzi possano essere utili e potenti per
coloro che vivono nei luoghi e nelle situazioni più difficili, dove costituiscono l’unico
modo per informarsi, chiedere aiuto o comunicare con i propri cari.
● In tempi di crisi, le persone si rivolgono sempre più ai social media per far sentire la
propria voce, organizzarsi e condividere ciò che sta accadendo con il resto del
mondo. È quello che accade, ad esempio, nelle zone di guerra.
● Lo si è visto in maniera evidente proprio in Ucraina. I cittadini ucraini hanno utilizzato
le nostre piattaforme per far luce su ciò che stava accadendo, per esprimersi contro
l’invasione e per unirsi in segno di protesta e solidarietà. I social hanno inoltre

consentito alle persone al di fuori dell’Ucraina di mettersi in contatto con coloro che si
trovavano all’interno del Paese.
● In questo modo, abbiamo assistito a un’enorme mobilitazione da tutto il mondo a
sostegno del popolo ucraino. Per fare qualche esempio pratico:
○ Nei primi 25 giorni di offensiva russa, su Facebook e Instagram erano stati
raccolti più di 40 milioni di dollari a supporto delle organizzazioni non profit
attive con gli aiuti umanitari in Ucraina. Queste donazioni sono servite a
sostenere aiuti di breve e lungo termine (sotto forma di cure mediche urgenti,
riparo, cibo e trasporti) in tutto il territorio ucraino ma anche nei confronti dei
rifugiati ucraini nei Paesi vicini.
○ E ancora, solo nelle prime due settimane del conflitto, più di 3 milioni di
persone si sono unite a gruppi di supporto su Facebook creati appositamente
per dare aiuto al popolo ucraino, offrendo aiuti umanitari, alloggi, consulenza
legale o assistenza medica.
■ Ad esempio, in poche settimane abbiamo visto nascere un gruppo
formato da 200.000 volontari e donatori rumeni che si sono occupati di
coordinare i trasporti e gli alloggi messi a disposizione dei rifugiati
ucraini. Un altro gruppo di questo tipo è nato in Polonia e ha presto
raggiunto più di 300.000 membri che hanno offerto alloggio, vestiti,
medicine e passaggi dalla frontiera.

○ Noi stessi abbiamo donato 15 milioni di dollari per sostenere gli sforzi
umanitari in Ucraina e nei paesi limitrofi. Di questi, 5 milioni sono stati donati
direttamente alle agenzie delle Nazioni Unite, come l’UNICEF, e ad alcune
non-profit, tra cui gli International Medical Corps che hanno utilizzato questi
fondi per schierare unità mediche mobili in Ucraina. I restanti 10 milioni sono
stati forniti sotto forma di crediti pubblicitari, per aiutare le organizzazioni
non-profit a raccogliere i fondi necessari.
● Il nostro impegno si è poi articolato su molteplici fronti:
○ Abbiamo istituito un Centro Operativo speciale interno all’azienda, composto
anche da molti madrelingua russi e ucraini, che lavorano 24 ore su 24 per
monitorare le attività relative al conflitto sulle nostre piattaforme e rispondere
in tempo reale. A esperti e revisori si è affiancata la tecnologia, che ci
permette di individuare contenuti problematici ancora più rapidamente,
spesso prima che vengano segnalati.
○ Ciò include anche la lotta contro il cosiddetto Coordinated Inauthentic
Behavior: ad esempio, abbiamo rimosso una rete gestita da persone in
Ucraina e Russia che prendevano di mira l'Ucraina attraverso finti siti web di
entità giornalistiche indipendenti e account falsi sulle piattaforme. Il nostro
rapporto Meta’s Adversarial Threat Report celebra quasi cinque anni da
quando abbiamo iniziato a rendere pubbliche le nostre ricerche sulle minacce
e l'analisi delle operazioni di influenza occulta che affrontiamo nell'ambito
della politica sul Coordinated Inauthentic Behaviour (CIB). Dal 2017, abbiamo
ampliato le aree di interesse dei nostri rapporti al fine di includere nell’analisi
anche lo spionaggio informatico, le segnalazioni di massa, l'amplificazione
non autentica, il brigantaggio e molti altri comportamenti pericolosi. Per

entrare maggiormente nel dettaglio, si può far riferimento al nostro ultimo
rapporto trimestrale su questo genere di minacce il quale fornisce una
panoramica sui diversi tipi di criticità che abbiamo affrontato a livello globale,
anche in Russia. Ad esempio, abbiamo condiviso una ricerca dettagliata sulle
minacce provenienti da una troll farm (fabbrica di troll) russa che aveva preso
di mira molte app su Internet nel tentativo, fallito, di creare la falsa
impressione di un sostegno e quindi una legittimazione popolare alla guerra
della Russia contro l'Ucraina.
○ Consapevoli del ruolo che le nostre piattaforme svolgono per i cittadini per
informarsi, abbiamo aumentato i nostri sforzi per combattere la
disinformazione anche grazie a una maggiore collaborazione con diversi
fact-checkers di lingua ucraina e russa, aggiungendo delle etichette per
segnalare i contenuti classificati come falsi e riducendone la visibilità. Per
aiutare le persone a rimanere informate, abbiamo mostrato, nella parte
superiore del Feed di Facebook, un messaggio in Ucraino per connettere le
persone con informazioni tempestive e affidabili.
○ Abbiamo inoltre aggiornato il nostro Community Help trasformandolo in un
centro dove le persone presenti nella regione possono trovare informazioni
affidabili fornite dalle agenzie locali delle Nazioni Unite e dalla Croce Rossa –
ad esempio, su dove cercare assistenza medica o come rimanere al sicuro,
sia in Ucraina che una volta attraversati i confini per i Paesi vicini.
○ Come parte del nostro programma Data for Good, abbiamo condiviso con
alcuni partner di fiducia, nel rispetto della privacy e della sicurezza degli
utenti, set di dati sulla mobilità in tempo reale verso i Paesi confinanti con
l'Ucraina, per consentire loro di prevedere i flussi dei rifugiati. Grazie a queste
informazioni, organizzazioni non profit come Direct Relief e Crisis Ready
hanno prodotto dei report giornalieri che sono poi stati utilizzati dalla Banca
Mondiale, l'UNICEF e Medici Senza Frontiere.
○ Infine, bisogna ricordare che in contesti di guerra la sicurezza delle persone
dipende anche dalla protezione della loro privacy. I nostri servizi sono utili
solo se le persone possono accedervi senza condividere informazioni
sensibili sulla loro identità, posizione, connessioni o sul contenuto dei loro
messaggi. Ecco perché abbiamo introdotto delle misure aggiuntive volte a
proteggere le informazioni dei cittadini ucraini sulle nostre piattaforme e
semplificato gli strumenti per nascondere o eliminare la propria attività.
● Ci sarebbero numerose altre iniziative da raccontare, in relazione a questa e ad altre
situazioni di conflitto in giro per il mondo. Ma visto che il tempo sta per finire, vorrei
concludere riprendendo quel passaggio di Papa Francesco con cui ho iniziato il mio
intervento. Il digitale, continua Francesco, è “uno strumento formidabile.
Potenzialmente tutti possiamo diventare testimoni di eventi che altrimenti
sarebbero trascurati, dare un contributo civile, far emergere più storie.”
● Ecco, credo che quanto vi ho raccontato oggi confermi le parole del Pontefice,
mostrando attraverso esempi pratici il contributo che la rete e i social media possono
dare nei contesti più difficili: permettere alle persone di accedere a informazioni
affidabili, di unirsi, di comunicare, di trovare aiuto ma anche di offrirlo.

Antonio Ferrari

Giornalista e saggista, Italia
 biografia

Devo premettere che sono felice di partecipare attivamente all’incontro annuale con la Comunità di S.Egidio, mia inseparabile compagna di vita. Al Corriere della Sera sono grato perché mi ha consentito di conoscere l’intero mondo come inviato speciale. Alla Comunità di S.Egidio sono grato perché mi ha donato quel che mi mancava: incontri impossibili, scambio di esperienze e poi quell’amicizia che confina con l’amore..

Vi racconto che non sono un credente, o meglio non ero un credente. Ho subito troppe angherie dalla Chiesa ufficiale del mio tempo. A cominciare dalle bugie su Gesù Cristo ammazzato sulla Croce dai deicidi, cioè gli ebrei. Menzogne assolute. Gesù era ebreo come sua madre Maria e suo padre Giuseppe.

Ero ancora un bambino di 9 anni quando frequentavo il catechismo dopo la morte di mio padre, eroe della resistenza. Papà, caduto a 39 anni dopo una lunga sofferenza in carcere perché aveva rifiutato, da ufficiale, di firmare per la repubblica di Salo. E mia mamma, rimasta   vedova a 38 anni con 3 figli da mantenere. Non immaginate le sofferenze, attutite soltanto dalla solidarietà che si respirava in quegli anni. 

Non riuscivo ad essere credente perché mia mamma fu circuita dal parroco e mia sorella da un curato. Storie orribili di quegli anni. Mio zio, missionario Saveriano, rientrato in Italia per aiutare la mia famiglia, lavorava al ministero degli esteri Vaticano e mi raccontava porcherie irripetibili. A volte mi arrabbiavo, infastidito: “Zio, hai le prove di quello che mi racconti?” Mi rispose che un giorno avrei saputo tutto. Aveva ragione. Povero zio, da Papa Francesco avrebbe avuto tutte le prove sui mali della Chiesa.

Da non credente vi dico che ogni domenica non aspetto altro che la voce del Papa, alle 12. Se ho ritrovato e ricucito i brandelli della mia fede lo devo solo a lui. E ringrazio i fraterni amici della Comunità di S.Egidio che mi sono stati a fianco in questo cammino. Un abbraccio affettuoso a “Don Matteo”, cioè il cardinale Matteo Zuppi, che mi onora della sua amicizia personale. Ringrazio tutti voi. Il sostegno dei mass media è essenziale per tutti, voi e noi. E aggiungo subito che credo da sempre nei social. Sono il vero presente che ci aiuta a conoscere il passato per comprendere le sfide del futuro. Al Corriere, dove sono il più anziano, ho sposato il web da oltre 20 anni. So bene che i social sono fondamentali per tutti. Con molto controllo e attenzione.

E poi credetemi, la Pace è l’unica vera strada maestra. Ve lo dice uno che di guerre, per il Corriere della Sera, ne ha seguite ben 10. Avevo chiesto al mio giornale di mandarmi in Ucraina per sostenere i miei colleghi. Mi hanno risposto che ero matto. Beh, a 76 anni suonati posso correre per prendere un tram, ma non so se sarei capace di sopravvivere a un attacco micidiale dei famigerati russi.

Stefano Orlando

Comunità di Sant'Egidio, Italia
 biografia

Buongiorno a tutti, 

Il mio intervento partirà dall’esperienza di Sant’Egidio sulla comunicazione

Quindi a Sant’Egidio non ci occupiamo primariamente di comunicazione, ma la comunicazione è alla base del lavoro con i poveri e per la pace. 

A Sant’Egidio tutti sappiamo che per aiutare i poveri e far crescere la pace, c’è bisogno di comunicare con tutti. Soprattutto con chi non la pensa come noi. 

E questo chiaramente passa anche per i media, e per l’utilizzo dei social media.

Quindi vorrei parlare di tre sfide rispetto ai media, e ai social e a come possono contribuire alla pace e a un futuro più giusto. 

Le bad news e le good news

Il punto di partenza, ben noto ai professionisti della comunicazione, è che le cattive notizie, le bad news, attraggono molto più l’attenzione di quelle buone. Un episodio di violenza, un disastro, un pericolo, cattura l’attenzione. Fa parte di meccanismi cognitivi ampiamente studiati dalle neuroscienze, e sostanzialmente fondati sul nostro istinto di auto-conservazione. 

E’ quindi naturale che i media tradizionali, il cui prestigio, e i cui profitti, si basano sulle vendite o sugli ascolti, diano largo spazio alle bad news. Ed è altrettanto chiaro che sui social media, dove non c’è una decisione editoriale a monte, ma sono gli utenti a decidere, avviene lo stesso.

Certo, oltre alle bad news c’è l’intrattenimento: i famosi gattini. Il problema è che così resta poco spazio per le buone notizie.

Quale è la conseguenza? Che si diffonde un senso pessimistico e scoraggiato sul futuro personale e del mondo. Soprattutto ci si convince che i problemi sono enormi, e quindi non vale la pena impegnarsi per risolverli. Meglio distrarsi con una serie Netflix!

Si crea una distorsione pessimistica nella percezione della realtà. Un esempio tra tanti. Andate a vedere il sito Gapminder: loro chiedono alle persone cosa sanno di tanti aspetti importanti del mondo e della società, e poi confrontano i dati e notano forti differenze. 

Il punto quale è: non che dobbiamo ignorare i problemi, come ingenui ottimisti, ma che parlare solo dei problemi, e mai delle soluzioni alternative genera rassegnazione, paura e rabbia. La paura non è per forza un problema. Io ho paura della minaccia atomica, e vorrei che ne avessero di più quelli che hanno il potere. Il problema sono le paure irrazionali.

Hitler nel Mein Kampf diceva che lo scopo della propaganda è quello di sostituire, nella sfera pubblica, il dibattito ragionato con le paure irrazionali e le passioni.

Qui non c’è Hitler, ma siamo noi stessi che ci auto sottoponiamo ad una propaganda negativa. 

Ieri avete ascoltato Olya Makar di Kiev, ha parlato della guerra nella sua città, un racconto tragico, ma ha anche raccontato di quello che stanno facendo a Kiev per la pace. Gli aiuti, le distribuzioni, le attività con i bambini. Si può parlare della tragedia della guerra con una proposta concreta, non ingenua, di pace. 

E’ la realtà alternativa di cui parlava ieri Andrea Riccardi.

Perché il grido della pace sia ascoltato, perché possiamo affrontare e invertire il riscaldamento climatico e la crisi ambientale, perché diminuiscano le diseguaglianze che non fanno male solo ai più poveri, ma a tutti, dobbiamo prima di tutto immaginare un futuro positivo. 

Quello che si immagina, poi si realizza! Le famose profezie che si auto-avverano di cui parlano gli economisti.

Cosa possono fare i media?

Non è facile andare contro la natura umana che è attratta dalle cattive notizie, ma la forza dell’uomo è che nella storia ha imparato a vincere i suoi istinti, le sue paure, di far prevalere la ragione e i sentimenti positivi sulle paure irrazionali.

Insomma, sarà che sant’Egidio è fondata sul Vangelo, cioè come sa chi ha studiato greco, una buona notizia. Ma noi alle buone notizie ci crediamo, e le vogliamo diffondere sempre di più, insieme ai media, ai social media, e ai giovani.

Quindi inizio per primo a raccontare una cosa positiva, una bella esperienza. Da un paio d’anni, in collaborazione con binario F di Meta, che ringrazio (sarebbe Facebook, lo dico perché non tutti si sono ancora abituati a nuovo nome), e insieme ad alcuni esperti, organizziamo un corso per giovani comunicatori, su come comunicare il bene sui media e sui social. E poi sempre Meta qualche anno fa ci ha dato dei crediti per sponsorizzare la pagina dei Giovani per la Pace, e il numero di follower è aumentato in un anno di 50 volte, e poi in maniera esponenziale. Ora sono quasi 30.000 follower che leggono le nostre buone notizie, di giovani che si impegnano per un mondo migliore. 

I social media non sono del tutto neutri. Se le good news sono sfortunate, le possiamo promuovere di più!

Far sentire la voce dei poveri

Dei poveri, dei marginali, dei periferici, degli ultimi si parla sui media sempre come un problema. Come di categorie sociali, e non come persone, e non li si fa parlare.

Ma a Sant’Egidio ho capito che la povertà è un problema, non i poveri. Anzi sono belli e simpatici. Spesso la prima impressione dei volontari dei licei, dopo essere venuti a fare volontariato con noi è “mi sono divertito”. Sono come sorpresi che la povertà e la tristezza non si sia contagiata.

E poi i poveri hanno idee, proposte, sogni, richieste che meritano attenzione. Insomma non bastano gli spot o i servizi con i bambini che stanno per morire. Purtroppo, dicono la verità, ci sono troppi bambini che muoiono, ma il rischio è che così finiamo per averne paura, perché abbiamo paura della sofferenza, e invece ci vuole anche un po’ di spazio per ascoltarli i bambini. Spesso dicono cose molto più sensate dei grandi, soprattutto sulla pace e contro guerra. Li consideriamo ingenui, ma viva l’ingenuità se porta alla pace. 

Ultimo punto: unire e non dividere

Qui parlo soprattutto dei social, e parlo anche da esperto di salute pubblica. L’abuso dello screen time fa male alla salute. Ci sono centinaia di studi su questo. E uno dei meccanismi attraverso cui si producono i danni è la diminuzione delle relazioni sociali. Quelle virtuali non sono un equivalente. 

Vi consiglio di leggere gli interessanti saggi di Manfred Spitzer come “connessi e isolati”, o il volume di Noreena Hertz sul secolo della solitudine in cui c’è un interessante capitolo sul ruolo dei social media nell’aumentare la solitudine, che è un vero e proprio fattore di rischio, quasi come il fumo di sigaretta. 

I social sono importantissimi per molti motivi. Fanno circolare notizie, idee, anche ottime idee. Ma non possiamo chiedergli di fare quello che non possono fare: creare legami interpersonali caldi. E poi rischiano di scollegare dalla realtà. Su questo un famoso esempio è la campagna invisible children sui bambini soldato. Un video di denuncia visto da milioni di persone, ma quando si è chiesto a queste persone di attaccare un cartello fuori dalla propria casa come azione concreta contro questa ingiustizia, non lo ha fatto quasi nessuno. 

Anche qui non voglio accusare le grandi companies. Che si rendono conto del problema. 

Anzi, visto che non c’è solo Meta, devo dire che abbiamo collaborato anche con Google in un progetto per contrastare l’odio online, e il cyber bullismo che prevedeva incontri nelle scuole sull’uso dei social media, ma anche delle attività off-line. 

Insomma, anche i social che rischiano di allontanarci, possono al contrario spingerci a uscire di casa a incontrare la realtà viva delle nostre comunità, e a impegnarci per gli altri, che è l’opposto dell’isolamento sociale. 

E poi in questo discorso sulla divisione voglio rapidamente citare un altro problema: il rischio insito nei social media, ma anche nei media tradizionali di aumentare la polarizzazione della nostra società, e quindi i conflitti. 

Echo chamber, auto-silenziamento delle minoranze moderate, i dibattiti online in cui ci si radicalizza invece di ascoltare le ragioni degli altri. Sono tutti fenomeni molto importanti, e lungamente studiati, su cui non c’è tempo per soffermarsi. 

Ma quello che voglio dire è che ascoltare il grido della pace, per i media, vuol dire contrastare questi fenomeni cercando di far emergere quello che unisce, e non quello che divide. Educando i fruitori dei media. Non convincendoli che hanno sempre ragione, per vendergli qualcosa, ma che il bello della comunicazione è sforzarsi di capire l’altro, anche se è il tuo “oppositore”, o non la pensa come te. Se non ha delle buone ragioni ha almeno delle ragioni, e vale la pena ascoltarle e comprenderle.

E’ chiaro che su questo non basta che i media, o i giornali, o le grandi aziende si impegnino. Serve anche la scuola, le famiglie, e ci dobbiamo impegnare tutti noi. Bisogna formare persone che sanno ascoltare e non solo persone che affermano le proprie idee con prepotenza.

Uno sforzo non da poco ma, ne sono convinto, ne vale la pena!

Quindi più immaginazione alternativa, ascoltare la voce dei poveri, unire e non dividere. 

Stefano Stimamiglio

Direttore di "Famiglia Cristiana", Italia
 biografia

“Un grido di pace” è il titolo di questa edizione dell’Incontro internazionale di preghiera per la pace di Sant’Egidio. Quasi un’invocazione all’Altissimo - a Yahweh, al Dio di Gesù Cristo, ad Allah, a Brahmā - Visnù e Shiva, a ogni divinità in cielo e in terra - un’invocazione quasi disperata in forma di “grido”, che va altrettanto, se non più forte, verso - non contro! - un altro “grido”, quello di guerra, di morte, di distruzione.

Il grido è, forse, oggi uno dei “segni dei tempi” che ci è dato di vivere. Lo emettono gli uomini politici e religiosi violenti, lo emettono i soldati che servono il dio della violenza e del sopruso; coloro che sottostanno agli idoli delle ideologie, che sono sempre maschere per coprire indicibili interessi. Lo urla chi ha fatto del proprio “io” il proprio “dio”. Ma questo è un grido di guerra.

Un grido, questa volta di pace, invocando la pace, lo emettono anche le infinite vittime delle guerre, dello sfruttamento, della miseria, della violenza, della paura… Lo emettono gli uomini che servono la pace, a partire da papa Francesco, dai tanti presenti alla “Nuvola” in questi giorni, da ciascuno di noi, ognuno a modo suo. Lo emettono in tantissimi in questo tempo che sembra colorato, anzi scolorito, da un incattivirsi delle relazioni, di un buon cuore che sembra venire meno, di mani che sembrano vogliano armarsi più che tendersi l’una verso l’altra. E non solo nelle guerre guerreggiate con le bombe e i missili, ma anche nelle piccole guerre domestiche in cui ci imbattiamo o, Dio non voglia, che favoriamo con il nostro cuore indurito.

Andrea Riccardi domenica, nell’evento inaugurale di questo Incontro, parlava della importanza di essere “artigiani della pace”, di “costruire reti di pace”, unica prospettiva - diceva - contro la “eternizzazione delle guerre”, come accade in Siria e, Dio non voglia, anche in Ucraina. Ma anche, magari, nelle nostre case, nelle nostre associazioni, movimenti, e redazioni (per noi giornalisti). E chissà ancora dove altro.

Un lavoro artigianale di pace, questo mi sembra il lavoro, o meglio l’apostolato umano, che ogni uomo e donna sulla faccia della terra sono appellati a fare nella loro quotidianità, tanto più quando - come dei veri e propri editori in piccolo - maneggiano un social. E un simile lavoro è chiamato a farlo ogni operatore che lavora nel campo dei media, dando voce in modo artigianale, cioè “lavorando a bottega”, a quel “grido di pace”.

Mi sembra interessante, anche per noi operatori della comunicazione, la prospettiva che lanciava sempre Riccardi per la politica domenica scorsa: quella della immaginazione alternativa. Come la politica - nel suo ragionamento - ne ha bisogno per disegnare una visione di pace e di un mondo nuovo di fronte a pensieri stanchi, rassegnati e appiattiti sul presente, così i media hanno davanti a sé il grande compito di immaginare un nuovo modo di comunicare, alternativo a pensieri violenti e di pura contrapposizione. Quello che dobbiamo fare per servire il nostro popolo, ed essere così fedeli alla nostra vocazione professionale, è intercettare, “consumando le suole delle nostre scarpe”, i progetti di una società pacifica e giusta e di parlarne, promuoverli, testimoniarli e farli parlare. Ogni giorno noi operatori della comunicazione siamo davanti a questa scelta: a quale grido do spazio? A quello della guerra o a quello della pace? È una scelta.

Credo fermamente che essere testimoni di questo “grido di pace” nel campo della comunicazione non si possa fare da soli, in modo isolato, ma solo insieme a chi condivide gli stessi valori, tanto più in un mondo in cui l’infodemia e lo tsunami di stimoli che ci colpiscono quotidianamente alzano il rumore di fondo, desensibilizzando i cuori alla più elementare compassione umana.

Provo emozione quando a Famiglia Cristiana promuovevamo campagne insieme ad altre istituzioni e media ecclesiali e non, come la campagna delle mine antipersona (del 1997 con Mani Tese, Emergency e altri); o quella della nascita del Tribunale penale permanente (luglio 1998, con Amnesty International, Comunità di S. Egidio), la Convenzione internazionale sulle bombe a grappolo (maggio 2008, con Mani Tese, Emergency, Rete Disarmo, Acli e altri); il Trattato per la proibizione delle armi nucleari (settembre 2017 con ACLI, Azione Cattolica, Scout).

Guardo con speranza ad altre campagne, come quella Anche le parole possono uccidere, la campagna sociale voluta da noi con Avvenire per combattere i pregiudizi veicolati dal linguaggio. In occasione della presentazione della campagna Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, diceva che “Oggi c’è bisogno di una alfabetizzazione nuova sulle parole fondamentali. Purtroppo c’è un uso pervasivo, smodato di parole che uccidono. E le parole si trasformano in urla di guerra…”. E gli faceva eco il mio predecessore alla guida di Famiglia Cristiana, don Antonio Sciortino: “In questa direzione ci dà un aiuto potente papa Francesco: parlare male di qualcuno, ci dice, equivale a venderlo, come fece Giuda con Gesù”.

Forse dobbiamo allearci sempre più, come media “di buona volontà”, per continuare su questa strada.

Ma per dare voce al “grido della pace” occorre una condizione preliminare, che diamo troppo spesso per scontata. Ed è il cuore. Dov’è il mio cuore, il nostro cuore? Perché dobbiamo essere consapevoli che solo un cuore pacificato può parlare di pace e promuoverla.

San Benedetto nella sua “Regola” ha parole illuminanti in questo senso: “Se vuoi avere la vita, quella vera ed eterna, guarda la tua lingua dal male e le tue labbra dalla menzogna. Allontanati dall'iniquità, opera il bene, cerca la pace e seguila”. Questo è un lavoro quotidiano.

E ancora: “Nell’eventualità di un contrasto con un fratello, occorre stabilire la pace prima del tramonto del sole”. 

E ancora: “Appena viene annunciato l'arrivo di un ospite, il superiore e i monaci gli vadano incontro, manifestandogli in tutti i modi il loro amore; per prima cosa preghino insieme e poi entrino in comunione con lui, scambiandosi la pace”.

Guardando al padre Benedetto anche con occhi laici, ritengo che questa sia la via maestra, oggi tanto difficile quanto necessaria.


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