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Una via purifica una illumina una conduce a Dio (San.G.PaoloII)

«“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». Gesu'

 
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Quaresima 2023 Raniero Cantalamessa

Ultimo Aggiornamento: 03/04/2023 19:13
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03/04/2023 18:56

“IPSA NOVITAS INNOVANDA EST” Rinnovare la novità - Prima Predica, Quaresima 2023

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La storia della Chiesa di fine Ottocento e inizio Novecento ci ha lasciato una lezione amara che non dovremmo dimenticare per non ripetere l’errore che la provocò. Parlo del ritardo (anzi del rifiuto) di prendere atto dei cambiamenti avvenuti nella società, e della crisi del Modernismo che ne fu la conseguenza.
Chi ha studiato, anche superficialmente, quel periodo conosce il danno che ne derivò per una parte e per l’altra, cioè sia per la Chiesa che per i cosiddetti “modernisti”. La mancanza di dialogo, da una parte spinse alcuni dei più noti modernisti su posizioni sempre più estreme e per finire chiaramente ereticali; dall’altra, privò la Chiesa di enormi energie, provocando lacerazioni e sofferenze a non finire al suo interno, facendola ripiegare sempre di più su se stessa e facendole perdere il passo con i tempi.
Il Concilio Vaticano II è stato l’iniziativa profetica per recuperare il tempo perduto. Esso ha operato un rinnovamento che non è certo il caso di illustrare di nuovo in questa sede. Più che i suoi contenuti, ci interessa in questo momento il metodo da esso inaugurato che è quello di camminare nella storia, a fianco dell’umanità, cercando di discernere i segni dei tempi.
La storia e la vita della Chiesa non si è arrestata con il Vaticano II. Guai a fare di esso quello che si è tentato di fare con il concilio di Trento e cioè una linea di arrivo e un traguardo inamovibile. Se la vita della Chiesa si fermasse, succederebbe come a un fiume che arriva a uno sbarramento: si trasforma inevitabilmente in un pantano o una palude.
“Non pensare – scriveva Origene nel III secolo – che basti essere rinnovati una volta sola; bisogna rinnovare la stessa novità: ‘Ipsa novitas innovanda est’” . Prima di lui, il neo dottore della Chiesa sant’Ireneo aveva scritto: La verità rivelata è “come un liquore prezioso contenuto in un vaso di valore. Per opera dello Spirito Santo, essa ringiovanisce continuamente e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene” . Il “vaso” che contiene la verità rivelata è la vivente tradizione della Chiesa. Il “liquore prezioso” è in primo luogo la Scrittura, ma la Scrittura letta nella Chiesa, che è poi la definizione più giusta della Tradizione. Lo Spirito è, per sua natura, novità. L’Apostolo esorta i battezzati a servire Dio “nella novità dello Spirito e non nella vetustà della lettera” (Rom 7,6).
Non solo la società non si è fermata al tempo del Vaticano II, ma ha subito una accelerazione vertiginosa. I mutamenti che un tempo avvenivano in un secolo o due, oggi avvengono in un decennio. Questo bisogno di continuo rinnovamento non è altro che il bisogno di continua conversione, esteso dal singolo credente alla Chiesa intera nella sua componente umana e storica. La “Ecclesia semper reformanda”.
Il vero problema non sta dunque nella novità; sta piuttosto nel modo di affrontarla. Mi spiego. Ogni novità e ogni cambiamento si trova davanti a un bivio; può imboccare due strade opposte: o quella del mondo, o quella di Dio: o la via della morte o la via della vita. La Didaché, uno scritto redatto mentre era ancora in vita almeno uno dei dodici apostoli, illustrava già ai credenti queste due vie.
Ora noi abbiamo un mezzo infallibile per imboccare ogni volta la via della vita e della luce: lo Spirito Santo. È la certezza che Gesú ha dato agli apostoli prima di lasciarli: “Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre (Gv 14, 16). E ancora: “Lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità” (Gv 16, 13). Non lo farà tutto in una volta, o una volta per sempre, ma a mano a mano che le situazioni si presenteranno. Prima di lasciarli definitivamente, al momento dell’Ascensione, il Risorto rassicura di nuovo i suoi discepoli sull’assistenza del Paraclito: “Riceverete –dice – la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra” (Atti 1, 8).
L’intento delle cinque prediche di Quaresima che oggi iniziamo, detto molto semplicemente, è proprio questo: incoraggiarci a mettere lo Spirito Santo nel cuore di tutta la vita della Chiesa, e, in particolare, in questo momento, nel cuore dei lavori sinodali. Raccogliere, in altre parole, l’invito pressante che il Risorto rivolge, nell’Apocalisse, a ognuna delle sette chiese dell’Asia Minore: “Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese” (Ap 2, 7).
È l’unico modo, tra l’altro, che ho per non rimanere, io stesso, del tutto estraneo all’impegno in atto per il sinodo. In una delle mie prime prediche alla Casa Pontificia, 43 anni fa, dissi in presenza di san Giovanni Paolo II: “Io ho continuato a fare per tutta la vita l’umile mestiere che facevo da bambino”. E spiegai in che senso. I miei nonni materni coltivavano, a mezzadria, un vasto terreno collinoso. In giugno o in luglio c’era la mietitura, tutta a mano, con la falce, curvi sotto il sole. Era una fatica immane. Io e miei cuginetti eravamo incaricati di portare continuamente acqua da bere ai mietitori. È quello, dissi, che ho continuato a fare per il resto della vita. Sono cambiati i mietitori, che ora sono gli operai nella vigna del Signore, ed è cambiata l’acqua che ora è la Parola di Dio. Un mestiere, il mio, molto meno faticoso, a dire la verità, di quello dei lavoratori del campo, ma pure esso, spero, utile e in qualche modo necessario.

In questa prima predica mi limito a raccogliere la lezione che ci viene dalla Chiesa nascente. Vorrei mostrare, in altre parole, come lo Spirito Santo guidò gli apostoli e la comunità cristiana a muovere i primi passi nella storia. Quando furono messe per iscritto da Giovanni le parole di Gesú sopra ricordate sull’assistenza del Paraclito, la Chiesa ne aveva già fatto l’esperienza pratica, ed è proprio tale esperienza, ci dicono gli esegeti, che si riflette nella parole dell’evangelista.
Gli Atti degli apostoli ci mostrano una Chiesa che è, passo passo, “condotta dallo Spirito”. La sua guida si esercita non solo nelle grandi decisioni, ma anche nelle cose di minor conto. Paolo e Timoteo vogliono predicare il vangelo nella provincia dell’Asia, ma “lo Spirito Santo lo vieta loro”; fanno per dirigersi verso la Bitinia, ma, è scritto, “lo Spirito di Gesù non lo permette loro” (At 16, 6 s.). Si capisce, dal seguito, il perché di questa guida così incalzante: lo Spirito Santo spingeva in questo modo la Chiesa nascente ad uscire dall’Asia ed affacciarsi su un nuovo continente, l’Europa (cf. At 16,9). Paolo arriva a definirsi, nelle sue scelte, “prigioniero dello Spirito” (At 20,22).
Non è un cammino rettilineo e senza intoppi, quello della Chiesa nascente. La prima grande crisi è quella relativa all’ammissione dei gentili nella Chiesa. Non occorre rievocarne lo svolgimento. Ci interessa soltanto ricordare come viene risolta la crisi. Pietro va verso Cornelio e i pagani? E’ lo Spirito che glielo ordina (cf. At 10,19;11,12). E come viene motivata e comunicata la decisione presa dagli apostoli a Gerusalemme di accogliere i pagani nella comunità, senza obbligarli alla circoncisione e a tutta la legislazione mosaica? È risolta con quelle straordinarie parole iniziali: “È parso bene allo Spirito Santo e a noi…” (15, 28).
Non si tratta di fare dell’archeologia della Chiesa, ma di riportare alla luce, sempre di nuovo, il paradigma di ogni scelta ecclesiale. Non ci vuole molto sforzo infatti per scorgere l’analogia che c’è tra l’apertura che allora si operò nei confronti dei gentili, con quella che oggi si impone nei confronti dei laici, in particolare delle donne, e di altre categorie di persone. Vale la pena perciò rievocare la motivazione che spinse Pietro a superare le sue perplessità e a battezzare Cornelio e la sua famiglia. Leggiamo negli Atti:
Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio. Allora Pietro disse: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?». (At 10, 44-47)
Chiamato a giustificare la sua condotta a Gerusalemme, Pietro racconta quello che era accaduto nella casa di Cornelio e conclude dicendo:
Mi ricordai allora di quella parola del Signore che diceva: “Giovanni battezzò con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo!”. Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che ha dato a noi, per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio? (At 11, 16-17).
Se guardiamo bene, è la stessa motivazione che spinse i Padri del Concilio Vaticano II a ridefinire il ruolo dei laici nella Chiesa, e cioè la dottrina dei carismi. Conosciamo bene il testo, ma è sempre utile richiamarlo alla memoria:
Lo Spirito Santo non solo per mezzo dei sacramenti e dei ministeri santifica il Popolo di Dio e lo guida e adorna di virtù, ma ‘distribuendo a ciascuno i propri doni come piace a lui’ (cf. 1 Cor 12,11), dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali, con le quali li rende adatti e pronti ad assumersi opere ed uffici, utili al rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa, secondo quelle parole: ‘A ciascuno…la manifestazione dello Spirito è data perché torni a comune vantaggio’ (1 Cor 12,7). E questi carismi, straordinari o anche più semplici e più comuni, siccome sono soprattutto adattati e utili alle necessità della Chiesa, si devono accogliere con gratitudine e consolazione .

Siamo davanti alla riscoperta della natura non solo gerarchica, ma anche carismatica della Chiesa. San Giovanni Paolo II, nella “Novo millennio ineunte”(nr. 45) la renderà ancora più esplicita definendo la Chiesa come gerarchia e come koinonia. A una prima lettura, la recente costituzione sulla riforma della Curia “Praedicate Evangelium” (al di là di tutti gli aspetti giuridici e tecnici sui quali sono un perfetto ignorante) a me ha dato l’impressione di un passo avanti in questa stessa direzione: cioè nell’applicare il principio sancito dal Concilio a un settore particolare della Chiesa che è il suo governo e a un maggiore coinvolgimento in esso dei laici e delle donne.

Ma adesso dobbiamo fare un passo avanti. L’esempio della Chiesa apostolica non ci illumina soltanto sui principi ispiratori, cioè sulla dottrina, ma anche sulla prassi ecclesiale. Ci dice che non tutto si risolve con le decisioni prese in un sinodo, o con un decreto. C’è la necessità di tradurre nella pratica tali decisioni, la cosiddetta “recezione” dei dogmi. E per questo occorrono tempo, pazienza, dialogo, tolleranza; a volte anche il compromesso. Quando è fatto nello Spirito Santo, il compromesso non è un cedimento, o uno sconto fatto sulla verità, ma è carità e obbedienza alle situazioni. Quanta pazienza e tolleranza ha avuto Dio, dopo aver dato il Decalogo al suo popolo! Quanto a lungo ha dovuto –e deve ancora – aspettare per la sua recezione!

In tutta la vicenda appena ricordata, Pietro appare chiaramente come il mediatore tra Giacomo e Paolo, cioè tra la preoccupazione della continuità e quella della novità. In questa mediazione, assistiamo a un incidente che ci può essere di aiuto anche oggi. L’incidente è quello di Paolo che ad Antiochia rimprovera Pietro di ipocrisia per aver evitato di sedere a tavola con dei pagani convertiti. Sentiamo l’accaduto dalla sua viva voce:

Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma, dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi (Gal 2, 11-12) .
I “conservatori” del tempo rimproveravano a Pietro di essersi spinto troppo oltre, andando dal pagano Cornelio; Paolo gli rimprovera di non essersi spinto abbastanza oltre. Paolo è il santo che ammiro e amo di più. Ma in questo caso sono convinto che si è lasciato trascinare (non è l’unica volta!) dal suo carattere di fuoco. Pietro non ha affatto peccato di ipocrisia. La prova è che, in altra occasione, Paolo farà, lui stesso, esattamente, quello che fece Pietro ad Antiochia. A Listra egli fece circoncidere il suo compagno Timoteo “a motivo –è scritto- dei giudei che si trovavano in quelle regioni” (At 16, 3), cioè per non scandalizzare nessuno. Ai Corinzi scrive di essersi fatto “giudeo con i giudei, per guadagnare i giudei” (1 Cor 9, 20) e nella Lettera ai Romani raccomanda di venire incontro a chi non è ancora arrivato alla libertà di cui gode lui” (Rom 14, 1 ss).
Il ruolo di mediatore che Pietro esercitò tra le opposte tendenze di Giacomo e di Paolo continua nei suoi successori. Non certo (e questo è un bene per la Chiesa) in modo uniforme in ognuno di essi, ma secondo il carisma proprio di ognuno che lo Spirito Santo (e si presume i cardinali sotto di lui) hanno ritenuto il più necessario in un dato momento della storia della Chiesa.
Davanti agli eventi e alle realtà politiche, sociali ed ecclesiali, noi siamo portati a schierarci subito da una parte e demonizzare quella avversa, a desiderare il trionfo della nostra scelta su quella degli avversari. (Se scoppia una guerra, ognuno prega lo stesso Dio di dare la vittoria ai propri eserciti e annientare quelli del nemico!). Non dico che sia proibito avere preferenze: in campo politico, sociale, teologico e via dicendo, o che sia possibile non averle. Non dovremmo mai, però, pretendere che Dio si schieri dalla nostra parte contro l’avversario. E neppure dovremmo chiederlo a chi ci governa. È come chiedere a un padre di scegliere tra due figli; come dirgli: “Scegli: o me o il mio avversario; mostra chiaramente da che parte stai!” Dio sta con tutti e perciò non sta contro nessuno! È il padre di tutti.
L’agire di Pietro ad Antiochia – come pure quello di Paolo a Listra – non era ipocrisia, ma adattamento alle situazioni, cioè la scelta di quello che, in una certa situazione, favorisce il bene superiore della comunione. È su questo punto che vorrei continuare e concludere questa prima meditazione, anche perché questo ci permette di passare da quello che riguarda la Chiesa universale a quello che riguarda la Chiesa locale, anzi la propria comunità, o famiglia e la vita spirituale di ognuno di noi. (Che è quello che ci si attende, penso, da una meditazione quaresimale!).
C’è una prerogativa di Dio nella Bibbia che i Padri amavano sottolineare: la synkatabasis, cioè la condiscendenza. Per san Giovanni Crisostomo essa è una specie di chiave di lettura di tutta la Bibbia. Nel Nuovo Testamento questa stessa prerogativa di Dio è espressa con il termine benignità (chrestotes). La venuta di Dio nella carne è vista come la manifestazione suprema della benignità di Dio: “È apparsa la benignità di Dio e il suo amore per gli uomini” (Tito 3, 4).
La benignità –oggi diremmo anche cortesia – è qualcosa di diverso dalla semplice bontà; è essere buoni nei confronti degli altri. Dio è buono in se stesso ed è benigno con noi. Essa è uno dei frutti dello Spirito (Gal 5,22); è una componente essenziale della carità (1 Cor 13,4) ed è indice di animo nobile e superiore. Essa occupa un posto centrale nella parenesi apostolica. Leggiamo, per esempio, nella Lettera ai Colossesi:
Rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di benignità, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi (Col 3, 12-13).
Quest’anno celebriamo il quarto centenario della morte di un santo che è stato un modello eccelso di questa virtù, in un’epoca anch’essa segnata da aspre controversie: san Francesco di Sales. Dovremmo diventare tutti, in questo senso, “salesiani”: condiscendenti e tolleranti, meno arroccati sulle nostre personali certezze. Consapevoli di quante volte abbiamo dovuto riconoscere dentro di noi di esserci sbagliati sul conto di una persona o di una situazione, e di quante volte abbiamo dovuto adattarci anche noi alle situazioni. Nei nostri rapporti ecclesiali non c’è per fortuna – e mai ci dovrebbe essere – quella propensione all’insulto e al vilipendio dell’avversario che si nota in certi dibattiti politici e che tanto danno arreca alla pacifica convivenza civile.
C’è qualcuno, è vero, nei confronti del quale è giusto e doveroso essere intransigenti, ma quel qualcuno sono io stesso, è il mio io. Noi siamo portati, per natura, ad essere intransigenti con gli altri e indulgenti con noi stessi, mentre dovremmo proporci di fare proprio il contrario: severi con noi stessi, longanimi con gli altri. Questo proposito, preso sul serio, basterebbe da solo a santificare la nostra Quaresima. Ci dispenserebbe da ogni altro tipo di digiuno e ci disporrebbe a lavorare con più frutto e più serenità in ogni ambito della vita della Chiesa.
Un ottimo esercizio in questo senso consiste nell’essere onesti, nel tribunale del proprio cuore, nei confronti della persona con cui si è in disaccordo. Quando mi accorgo che sto mettendo sotto accusa qualcuno dentro di me, devo stare attento a non schierarmi subito dalla mia parte. Devo smettere di passare e ripassare le mie ragioni come chi mastica gomma, e cercare di mettermi invece nei panni dell’altro per capire le sue ragioni e quello che anch’egli potrebbe dire a me.

Questo esercizio non si deve fare soltanto nei confronti della singola persona, ma anche della corrente di pensiero con cui sono in disaccordo e della soluzione da essa proposta a un certo problema in discussione (nel Sinodo o in altro ambito). San Tommaso d’Aquino ce ne dà l’esempio: egli premette a ogni sua tesi le ragioni dell’avversario che mai banalizza o ridicolizza, ma prende sul serio e ad esse risponde poi con il suo “Sed contra”, cioè con le ragioni che ritiene le più conformi alla fede e alla morale. Domandiamoci (io per primo): facciamo così anche noi?

Gesù dice: “Non giudicate, per non essere giudicati. [...] Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?” (Mt 7, 1-3). Si può vivere, ci domandiamo, senza mai giudicare? La capacità di giudicare non fa parte della nostra struttura mentale e non è un dono di Dio? Nella redazione di Luca, il comando di Gesù: “Non giudicate e non sarete giudicati” è seguito immediatamente, come per esplicitare il senso di queste parole, dal comando: “Non condannate e non sarete condannati” (Lc 6, 37). Non si tratta dunque di eliminare il giudizio dal nostro cuore, quanto di togliere il veleno dal nostro giudizio! Cioè l’astio, la condanna, l’ostracismo.

Un genitore, un superiore, un confessore, un giudice, chiunque ha una qualche responsabilità su altri, deve giudicare. Talvolta, anzi, il giudicare è, appunto, il tipo di servizio che uno è chiamato a esercitare nella società o nella Chiesa. La forza dell’amore cristiano sta nel fatto che esso è capace di cambiare segno anche al giudizio e, da atto di non-amore, farne un atto d’amore. Non con le nostre forze, ma grazie all’amore che “è stato effuso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato donato” (Rom 5,5)

Facciamo nostra, a conclusione, la bellissima preghiera attribuita a san Francesco d’Assisi. (Forse non è sua, ma ne riflette alla perfezione lo spirito):
O Signore, fa di me uno strumento della tua pace:
dove è odio, ch’io porti l’amore,
dove è offesa, ch’io porti il perdono,
dov’è discordia, ch’io porti l’unione,
dov’è dubbio, ch’io porti la fede,
dove è l’errore, ch’io porti la verità,
dove è la disperazione, ch’io porti la speranza,
dove è tristezza, ch’io porti la gioia,
dove sono le tenebre, ch’io porti la luce.

E aggiungiamo:

Dove c’è malignità ch’io porti benignità.
Dove c’è asprezza, ch’io porti gentilezza!

1.Cf. Origene, In Rom. 5,8; PG 14, 1042.
2.S. Ireneo, Adversus Haereses, III, 24,1.
3.Lumen gentium, 12.


[Modificato da MARIOCAPALBO 03/04/2023 19:12]
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“IL VANGELO È POTENZA DI DIO PER CHIUNQUE CREDE” (Rom 1, 16) - Seconda Predica, Quaresima 2023

Dall’Evangelii Nuntiandi di san Paolo VI all’Evangelii gaudium dell’attuale Sommo Pontefice, il tema dell’evangelizzazione è stato al centro dell’attenzione del Magistero papale. Ad esso hanno contribuito le grandi encicliche di san Giovanni Paolo II, come pure l’istituzione del Pontificio consiglio per l’evangelizzazione, promosso da Benedetto XVI. La stessa preoccupazione si nota nel titolo dato alla costituzione per la riforma della Curia Praedicate Evangelium e nella denominazione “Dicastero per l’Evangelizzazione”, data all’antica Congregazione di Propaganda Fide. La stessa finalità è assegnata ora principalmente al Sinodo della Chiesa. E’ ad essa, cioè all’evangelizzazione, che vorrei dedicare la presente meditazione.
La definizione più breve e più pregnante dell’evangelizzazione è quella che si legge nella Prima Lettera di Pietro. In essa, gli apostoli sono definiti: “coloro che vi hanno annunciato il Vangelo nello Spirito Santo” (1 Pt 1, 12). Vi è espresso l’essenziale sull’evangelizzazione, e cioè il suo contenuto – il Vangelo – e il suo metodo – nello Spirito Santo.
Per sapere cosa si intende con la parola “Vangelo”, la via più sicura è chiederlo a colui che per primo ha usato questa parola greca e l’ha resa canonica nel linguaggio cristiano, l’apostolo Paolo. Abbiamo la fortuna di possedere un esposto di suo pugno che spiega cosa egli intende per “Vangelo”, ed è la Lettera ai Romani. Il tema di essa viene annunciato con le parole: “Io non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede” (Rom 1,16).
Per la riuscita di ogni nuovo sforzo di evangelizzazione è vitale avere chiaro il nucleo essenziale dell’annuncio cristiano, e questo nessuno lo ha messo in luce meglio dell’apostolo nei primi tre capitoli della Lettera ai Romani. Dal capire e applicare alla situazione attuale il suo messaggio dipende, sono convinto, se dai nostri sforzi nasceranno figli di Dio, o se si dovrà ripetere amaramente con Isaia: “Abbiamo concepito, abbiamo sentito i dolori quasi dovessimo partorire:era solo vento; non abbiamo portato salvezza alla terra e non sono nati abitanti nel mondo” (Is 26,18).
Il messaggio dell’Apostolo in quei primi tre capitoli della sua Lettera si può riassumere in due punti: primo, qual è la situazione dell’umanità dinanzi a Dio in seguito al peccato; secondo, come si esce da essa, cioè come si è salvati per la fede e fatti nuova creatura. Seguiamo l’Apostolo nel suo serrato ragionamento. Meglio, seguiamo lo Spirito che parla per mezzo di lui. Chi ha fatto dei viaggi in aereo, avrà ascoltato qualche volta l’annuncio: “Allacciate le cinture di sicurezza perché stiamo per entrare in una zona di turbolenza”. Bisognerebbe far risuonare lo stesso avvertimento a chi si accinge a leggere le parole che seguono di Paolo.
L’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli; di quadrupedi e di rettili (Rm 1, 18-23).

Il peccato fondamentale, l’oggetto primario dell’ira divina, è individuato, come si vede, nell’asebeia, cioè nell’empietà. In che consiste, esattamente, tale empietà, l’Apostolo lo spiega subito, dicendo che essa consiste nel rifiuto di “glorificare” e di “ringraziare” Dio. Strano! Questo fatto di non glorificare e ringraziare abbastanza Dio, a noi sembra, sì, un peccato, ma non così terribile e mortale. Bisogna capire cosa si nasconde dietro di esso: il rifiuto di riconoscere Dio come Dio, il non tributare a lui la considerazione che gli è dovuta. Consiste, potremmo dire, nell’“ignorare” Dio, dove ignorare non significa tanto “non sapere che esiste”, quanto “fare come se non esistesse”.

Nell’Antico Testamento sentiamo Mosè che grida al popolo: “Riconoscete che Dio è Dio!” (cf Dt 7, 9) e un salmista riprende tale grido, dicendo: “Riconoscete che il Signore è Dio: egli ci ha fatti e noi siamo suoi!” (Sal 100, 3). Ridotto al suo nucleo germinativo, il peccato è negare questo “riconoscimento”; è il tentativo, da parte della creatura, di cancellare, di propria iniziativa, quasi di prepotenza, la differenza infinita che c’è tra essa e Dio. Il peccato attacca, in tal modo, la radice stessa delle cose; è un “soffocare la verità nell’ingiustizia”. È qualcosa di molto più fosco e terribile di quanto l’uomo possa immaginare o dire. Se gli uomini conoscessero da vivi, come lo conosceranno al momento della morte, cosa significa il rifiuto di Dio, morirebbero di spavento.

Tale rifiuto ha preso corpo, abbiamo sentito, nell’idolatria, per la quale si adora la creatura al posto del Creatore. Nell’idolatria l’uomo non “accetta” Dio, ma si fa un dio; è lui a decidere di Dio, non viceversa. I ruoli vengono invertiti: l’uomo diventa il vasaio e Dio il vaso che egli modella a suo piacimento (cf Rm 9, 20 ss). Oggi questo tentativo antico ha preso una veste nuova. Essa non consiste nel mettere qualcosa – neppure se stessi – al posto di Dio, ma nell’abolire, puramente e semplicemente, il ruolo indicato dalla parola “ Dio”. Nichilismo! Il Nulla al posto di Dio. Ma non è il caso di trattenerci su ciò in questo momento; interromperebbe l’ascolto dell’Apostolo che invece continua il suo ragionamento serrato.

Paolo prosegue la sua requisitoria mostrando i frutti che scaturiscono, sul piano morale, dal rifiuto di Dio. Da esso deriva una generale dissoluzione dei costumi, un vero e proprio “torrente di perdizione” che trascina l’umanità in rovina. E qui l’Apostolo traccia un quadro impressionante dei vizi della società pagana. La cosa più importante da ritenere, da questa parte del messaggio paolino, non è, però, questa lista di vizi, presente, tra l’altro, anche presso i moralisti stoici del tempo. La cosa a prima vista sconcertante è che san Paolo fa di tutto questo disordine morale, non la causa, ma l’effetto dell’ira divina. Per ben tre volte ritorna la formula che afferma ciò in modo inequivocabile:

Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità. [...] Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami [...]. Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa di un’intelligenza depravata (Rm 1, 24.26.28).

Dio non “vuole” certamente tali cose, ma egli le “permette” per far comprendere all’uomo dove porta il rifiuto di lui. “Queste azioni – scrive sant’Agostino – sebbene siano castigo, sono esse pure dei peccati, perché la pena dell’iniquità è di essere, essa stessa, iniquità; Dio interviene a punire il male e dalla sua stessa punizione pullulano altri peccati” .

Non ci sono distinzioni davanti a Dio tra giudei e greci, tra credenti e pagani: “Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rom 3, 23). L’Apostolo ci tiene tanto a mettere in chiaro questo punto che ad esso dedica l’intero capitolo secondo e parte del terzo della sua Lettera. È tutta l’umanità che si trova in questa situazione di perdizione, non questo o quell’ individuo o popolo.

Dove sta, in tutto questo, l’attualità del messaggio dell’Apostolo di cui parlavo? Sta nel rimedio che il Vangelo propone a questa situazione. Esso non consiste nell’impegnarsi in una lotta per la riforma morale della società, per la correzione dei suoi vizi. Sarebbe, per lui, come voler sradicare un albero cominciando a togliergli le foglie o i rami più sporgenti, oppure un preoccuparsi di eliminare la febbre, anziché curare il male che la provoca.
Tradotto in linguaggio attuale, questo significa che l’evangelizzazione non comincia con la morale, ma con il kerygma; nel linguaggio del Nuovo Testamento, non con la Legge, ma con il Vangelo. E qual è il contenuto, o il nucleo centrale, di esso? Cosa intende Paolo per “Vangelo” quando dice che esso “è potenza di Dio per chiunque crede”? Credere in che cosa? “Si è manifestata la giustizia di Dio!” (Rm 3, 21): ecco qual è la novità. Non sono gli uomini che, improvvisamente, hanno mutato vita e costumi e si sono messi a fare il bene. Il fatto nuovo è che, nella pienezza dei tempi, Dio ha agito, ha rotto il silenzio, ha teso per primo la sua mano all’uomo peccatore.
Ma ascoltiamo ormai direttamente l’Apostolo che ci spiega in che cosa consiste questo “agire” di Dio. Sono parole che abbiamo letto o ascoltato centinaia di volte, ma le arie di una bella sinfonia si ama riascoltarle sempre di nuovo:

Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù (Rm 3, 23-26).

Vorrei subito tranquillizzare tutti: non intendo fare un’ennesima predica sulla giustificazione mediante la fede. C’è un pericolo nell’insistere unicamente su questo tema. Non è una dottrina quella che Paolo ci presenta, ma un evento, anzi una persona. Noi non siamo salvati genericamente “per la grazia”: siamo salvati per la grazia di Cristo Gesù; non siamo giustificati genericamente “mediante la fede”: siamo giustificati mediante la fede in Cristo Gesù. Tutto è cambiato “in virtù della redenzione operata da Cristo Gesú”. Il vero articolo con cui sta o cade la Chiesa (il famoso Articulum stantis et cadentis Ecclesiae) non è una dottrina, ma una persona.
Io rimango senza parole ogni volta che rileggo questa parte della Lettera ai Romani. Dopo aver descritto, con i toni che abbiamo sentito, la situazione disperata dell’umanità, l’Apostolo ha il coraggio di dire che essa è radicalmente cambiata a causa di quello che è avvenuto pochi anni prima, in una oscura parte dell’impero romano, ad opera di un singolo uomo, morto per di più su una croce! Solo un “acuto” dello Spirito Santo, una sua folgorazione, poteva dare a un uomo l’ardire di credere e proclamare questa cosa inaudita. Tanto più che questo stesso uomo un tempo diventava “furibondo” se qualcuno osava proclamare in sua presenza una cosa del genere. Il diacono Stefano ne aveva fatto le spese…
In noi lo shock è attutito da venti secoli di conferme, ma pensiamo a come dovevano suonare le parole dell’Apostolo a delle persone colte del tempo. Se ne rendeva conto lui stesso; per questo ha sentito il bisogno di dire: “Io non mi vergogno del Vangelo” (Rom 1,16). Ci si poteva infatti vergognare di esso. Io non riesco a capire come degli storici onesti possano credere (come è avvenuto per tanto tempo) che Paolo abbia attinto questa sua certezza dai culti ellenistici, o non so da quale altra fonte. Chi aveva mai immaginato, o poteva umanamente immaginare, una cosa del genere?
Ma torniamo al nostro intento specifico che è l’evangelizzazione. Cosa impariamo dalla parola di Dio appena riascoltata? Ai pagani, Paolo non dice che il rimedio alla loro idolatria sta nel tornare a interrogare l’universo per risalire dalle creature a Dio; ai giudei, non dice che il rimedio sta nel tornare a osservare meglio la Legge di Mosè. Il rimedio non è in alto o indietro; è in avanti, è nell’accogliere “la redenzione operata da Cristo Gesú”.
Paolo, a dire il vero, non dice una cosa del tutto nuova. Se fosse lui l’autore di questo inaudito messaggio, avrebbero ragione quelli che dicono che il vero fondatore del cristianesimo è Saulo di Tarso, non Gesú di Nazareth. Ma si sbagliano! Paolo non fa che riprendere, adattandolo alla situazione del momento, l’annuncio inaugurale della predicazione di Gesú: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,15). Sulla sua bocca “convertitevi” non voleva dire, come nei profeti antichi e in Giovanni Battista: “Tornate indietro, osservate la Legge i comandamenti!”; significa piuttosto: “Fate un balzo in avanti; entrate nel Regno che è venuto gratuitamente tra voi! Credete al Vangelo! Convertirsi è credere. “La prima conversione consiste nel credere”, ha scritto san Tommaso d’Aquino: Prima conversio fit per fidem .
Né il discorso di Gesú né quello di Paolo si fermano, naturalmente, a questo punto. Nella sua predicazione Gesú esporrà cosa comporta accogliere il Regno e Paolo dedicherà tutta la seconda parte della sua Lettera a elencare le opere, o le virtù, che devono caratterizzare chi è diventato creatura nuova. Al kerygma fa seguire la parenesi, all’annuncio l’esortazione. L’importante è l’ordine da seguire nella vita e nell’annuncio, da dove cominciare, giacché, diceva già san Gregorio Magno “non si perviene alla fede partendo dalle virtù, ma alle virtù partendo dalla fede” . Ogni iniziativa di evangelizzazione che volesse cominciare con il riformare i costumi della società, prima di cercare di cambiare il cuore delle persone, è votata a finire nel nulla, o, peggio, in politica.
Ma non è il caso di insistere neppure su ciò, in questo momento. Dobbiamo piuttosto raccogliere l’insegnamento positivo dell’Apostolo. Cosa dice la parola di Dio a una Chiesa che – pur ferita in se stessa e compromessa agli occhi del mondo – ha un sussulto di speranza e vuole riprendere, con nuovo slancio, la sua missione evangelizzatrice? Dice che bisogna ripartire dalla persona di Cristo, parlare di lui “a tempo e fuori tempo”; non dare mai per esaurito, o supposto, il discorso su di lui. Gesú non deve stare sullo sfondo, ma al cuore di ogni annuncio.
Il mondo secolare fa del tutto (e purtroppo ci riesce!) per tenere il nome di Gesú lontano, o taciuto, in ogni discorso sulla Chiesa. Noi dobbiamo fare del tutto per tenerlo sempre presente. Non per ripararci dietro di esso, ma perché è lui la forza e la vita della Chiesa. All’inizio della Evangelii gaudium, leggiamo queste parole:
Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui.
Che io sappia, questa è la prima volta che, in un documento ufficiale del Magistero, compare l’espressione “incontro personale con Cristo”. Nonostante la sua apparente semplicità, questa espressione contiene una novità che dobbiamo cercare di capire.

Nella pastorale e nella spiritualità cattolica, erano familiari, in passato, altri modi di concepire il nostro rapporto con Cristo. Si parlava di un rapporto dottrinale, consistente nel credere in Cristo; di un rapporto sacramentale che si realizza nei sacramenti, di un rapporto ecclesiale, in quanto membra del corpo di Cristo che è la Chiesa; si parlava anche di un rapporto mistico o sponsale riservato ad alcune anime privilegiate. Non si parlava – o almeno non era comune parlare – di un rapporto personale – come tra un io e un tu – aperto a ogni credente.
Durante i cinque secoli che abbiamo alle spalle – che impropriamente vengono detti ”della Controriforma” – la spiritualità e la pastorale cattolica hanno guardato con sospetto a questo modo di concepire la salvezza. Vi si vedeva il pericolo (tutt’altro che remoto e ipotetico del resto) del soggettivismo, cioè di concepire la fede e la salvezza come un fatto individuale, senza un vero rapporto con la Tradizione e con la fede del resto della Chiesa. Il moltiplicarsi delle correnti e delle denominazioni nel mondo Protestante non faceva che rafforzare questa convinzione.
Ora noi siamo entrati, grazie a Dio, in una fase nuova in cui ci sforziamo di vedere le differenze, non necessariamente come incompatibili tra di loro e quindi da combattere, ma, fin dove è possibile, come ricchezze da condividere. In questo nuovo clima, si capisce l’esortazione ad avere un “rapporto personale con Cristo”. Questo modo di concepire la fede ci sembra, anzi, l’unico possibile da quando la fede non è più un fatto scontato che si assorbe da bambini con l’educazione familiare e scolastica, ma è frutto di una decisione personale. Il successo di una missione non si può più misurare dal numero delle confessioni ascoltate e delle comunioni distribuite, ma da quante persone sono passate dall’essere cristiani nominali a cristiani reali, cioè convinti e attivi nella comunità.
Cerchiamo di capire in che cosa consiste, in concreto, questo famoso “incontro personale” con Cristo. Io dico che è come incontrare una persona dal vivo, dopo averlo conosciuto per anni solo in fotografia. Si possono conoscere libri su Gesù, dottrine, eresie su Gesù, concetti su Gesù, ma non conoscere lui vivente e presente. (Insisto soprattutto su questi due aggettivi: un Gesú risorto e vivo e un Gesú presente!). Per tanti, anche battezzati e credenti, Gesú è un personaggio del passato, non una persona viva nel presente.
Aiuta a capire la differenza quello che succede nell’ambito umano, quando si passa dal conoscere una persona all’innamorarsi di essa. Uno può conoscere tutto di una donna o di un uomo: come si chiama, quanti anni ha, che studi ha fatto, a quale famiglia appartiene …Poi un giorno scocca una scintilla e si innamora di quella donna o di quell’uomo. Cambia tutto. Si vuole stare con quella persona, piacerle, averla per sé, paura di dispiacerle e di non essere degni di essa.
Come fare perché scocchi in tanti quella scintilla nei confronti della persona di Gesù? Essa non si accenderà in chi ascolta il messaggio del Vangelo, se non si è accesa prima – almeno come desiderio, come ricerca e come proposito – in chi lo proclama. Vi sono state e vi sono eccezioni; la parola di Dio, ha una forza propria e può agire, a volte, anche se pronunciata da chi non la vive; ma è l’eccezione.
Per la consolazione e l’incoraggiamento di quanti lavorano istituzionalmente nel campo dell’evangelizzazione, vorrei dire loro che non tutto dipende da essi. Da essi dipende creare le condizioni perché si accenda quella scintilla e si diffonda. Ma essa scocca nei modi e nei momenti più impensati. Nella maggioranza dei casi che ho conosciuto nella mia vita, la scoperta di Cristo che ha cambiato la vita era stata occasionata dall’incontro con qualcuno che aveva già sperimentato quella grazia, dalla partecipazione a un raduno, dall’ascolto di una testimonianza, dall’aver sperimentato la presenza di Dio in un momento di grande sofferenza, e – non posso tacerlo, perché è avvenuto così anche per me – dall’aver ricevuto il cosiddetto battesimo dello Spirito.
Qui si vede la necessità di fare sempre più assegnamento sui laici, uomini e donne, per l’evangelizzazione. Essi sono più inseriti nelle maglie della vita in cui si realizzano di solito quelle circostanze. Anche per la scarsità del numero, a noi del clero riesce più facile essere pastori che pescatori di anime: più facile pascere con la parola e i sacramenti quelli che vengono in Chiesa, che andare in alto mare a pescare i lontani. I laici possono supplirci nel compito di pescatori. Molti di essi hanno scoperto cosa significa conoscere un Gesú vivo e sono ansiosi a condividere con altri la loro scoperta.
I movimenti ecclesiali, sorti dopo il Concilio, sono stati per tantissimi il luogo in cui hanno fatto tale scoperta. Nella sua omelia per la Messa crismale del Giovedì Santo 2012, l’ultimo del suo pontificato, Benedetto XVI affermò: “Chi guarda alla storia dell’epoca post-conciliare può riconoscere la dinamica del vero rinnovamento, che ha spesso assunto forme inattese in movimenti pieni di vita e che rende quasi tangibili l’inesauribile vivacità della santa Chiesa, la presenza e l’azione efficace dello Spirito Santo”. Accanto ai frutti buoni, alcuni di questi movimenti hanno prodotto anche frutti marci. Bisognerebbe ricordarsi del detto: “Non buttare via il bambino insieme con l’acqua sporca”.

Termino con le parole conclusive dell’Itinerario della mente a Dio di san Bonaventura, perché esse ci suggeriscono da dove cominciare per realizzare, o rinnovare, il nostro “rapporto personale con Cristo” e diventarne coraggiosi annunciatori:
Questa sapienza mistica segretissima –scrive-, nessuno la conosce se non chi la riceve; nessuno la riceve se non chi la desidera; nessuno la desidera se non chi è infiammato nell’intimo dallo Spirito Santo mandato da Cristo sulla terra .

1.Agostino, De natura et gratia, 22,24.
2.Tommaso d’Aquino, S.Th. I-IIae, q.113, a. 4.
3.Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, II,7 (PL 76, 1018),
4.Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium mentis in Deum, VII, 4.


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“ DIO È AMORE!” - Terza Predica, Quaresima 2023 17 marzo 2023 -

Abbiamo bisogno della teologia!


Per la vostra e la mia consolazione, Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, questa meditazione sarà centrata tutta e solo su Dio. La teologia, cioè il discorso su Dio, non può rimanere estranea alla realtà del Sinodo, come non può rimanere estranea a ogni altro momento della vita della Chiesa. Senza la teologia, la fede diventerebbe facilmente morta ripetizione; mancherebbe dello strumento principale per la sua inculturazione.
Per assolvere questo compito, la teologia ha bisogno, essa stessa, di un rinnovamento profondo. Quello di cui il popolo di Dio ha bisogno è una teologia che non parli di Dio sempre e soltanto “in terza persona”, con categorie mutuate spesso dal sistema filosofico del momento, incomprensibili fuori della ristretta cerchia degli “iniziati”. È scritto che “il Verbo si è fatto carne”, ma in teologia, spesso il Verbo si è fatto solo idea! Karl Barth auspicava l’avvento di una teologia “capace di essere predicata”, ma questo auspicio mi sembra lontano dall’essersi ancora realizzato. San Paolo ha scritto:

Lo Spirito conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio…. I segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato (1 Cor 2, 10-12).
Ma dove trovare ormai una teologia che faccia leva sullo Spirito Santo, più che su categorie di sapienza umana, per conoscere “le profondità di Dio”? Bisogna, per questo, ricorrere a materie dette “opzionali”: alla “Teologia spirituale”, oppure alla “Teologia pastorale”. Henri de Lubac ha scritto: “Il ministero della predicazione non è la volgarizzazione di un insegnamento dottrinale in forma più astratta, che sarebbe ad esso anteriore e superiore. È, al contrario, l’insegnamento dottrinale stesso, nella sua forma più alta. Questo era vero della prima predicazione cristiana, quella degli apostoli, ed è vero ugualmente della predicazione di coloro che sono ad essi succeduti nella Chiesa: i Padri, i Dottori e i nostri Pastori nell’ora presente” .
Sono convinto che non c’è alcun contenuto della fede, per quanto elevato, che non possa essere reso comprensibile a ogni intelligenza aperta alla verità. Se c’è una cosa che possiamo imparare dai Padri della Chiesa è che si può essere profondi senza essere oscuri. San Gregorio Magno dice che la Sacra Scrittura è “semplice e profonda, come un fiume in cui, per così dire, un agnello può camminare e un elefante può nuotare” . La teologia dovrebbe ispirarsi a questo modello. Ognuno dovrebbe potervi trovare pane per i suoi denti: il semplice, il suo nutrimento e il dotto, cibo raffinato per il suo palato. Senza contare che spesso viene rivelato ai “piccoli” quello che rimane nascosto “ai sapienti e gli intelligenti”.

Ma chiedo scusa che sto tradendo la mia promessa iniziale. Non è un discorso sul rinnovamento della teologia che intendo fare in questa sede. Non avrei alcun titolo per farlo. Vorrei piuttosto mostrare come la teologia, intesa nel senso accennato, può contribuire a presentare in modo significativo il messaggio evangelico all’uomo d’oggi e a dare linfa nuova alla nostra fede e alla nostra preghiera.

La notizia più bella che la Chiesa ha il compito di far risuonare nel mondo, quella che ogni cuore umano attende di sentire, è: “Dio ti ama!” Questa certezza deve scardinare e sostituire quella che ci portiamo dentro da sempre: “Dio ti giudica!” La solenne affermazione di Giovanni: “Dio è amore” (1 Gv 4,8) deve accompagnare, come una nota di fondo, ogni annuncio cristiano, anche quando dovrà ricordare, come fa il Vangelo, le esigenze pratiche di questo amore.

Quando invochiamo lo Spirito Santo – anche nella presente occasione del Sinodo – noi pensiamo in primo luogo allo Spirito Santo come luce che ci illumina sulle situazioni e ci suggerisce le soluzioni giuste. Pensiamo meno allo Spirito Santo come amore; invece è questa la prima e più essenziale operazione dello Spirito di cui la Chiesa ha bisogno. Solo la carità edifica; la conoscenza – anche quella teologica, giuridica ed ecclesiastica – spesso non fa che gonfiare e dividere. Se ci domandiamo perché siamo così ansiosi di conoscere (e oggi, così eccitati alla prospettiva dell’intelligenza artificiale!) e così poco, invece, preoccupati di amare, la risposta è semplice: è che la conoscenza si traduce in potere, l’amore invece in servizio!
Lo stesso Henri de Lubac ha scritto: “Occorre che il mondo lo sappia: la rivelazione del Dio Amore sconvolge tutto quello che esso aveva concepito della divinità” . A tutt’oggi non abbiamo finito (né si finirà mai) di trarre tutte le conseguenze dalla rivoluzione evangelica su Dio come amore. In questa meditazione vorrei mostrare come, partendo dalla rivelazione di Dio come amore, si illuminano di luce nuova i principali misteri della nostra fede: la Trinità, l’Incarnazione e la Passione di Cristo e diventa meno difficile farli comprendere dalla gente. Quando san Paolo definisce i ministri di Cristo “dispensatori dei misteri di Dio” (1 Cor 4,1), intende questi misteri della fede, non si riferisce a dei riti e neppure in primo luogo ai sacramenti.

Perché la Trinità

Iniziamo dal mistero della Trinità: perché noi cristiani crediamo che Dio è uno e trino? Mi sono trovato più di una volta a predicare la parola di Dio a cristiani che vivono in paesi a maggioranza islamica, nei quali, tuttavia, c’è una relativa tolleranza e possibilità di dialogo, come avviene negli Emirati Arabi. Sono persone, per lo più immigrati, impiegati come mano d’opera. Essi mi hanno chiesto a volte cosa rispondere alla domanda che viene loro rivolta nei luoghi di lavoro: “Perché voi cristiani dite di essere dei monoteisti, se non credete in un Dio unico e solo?”
Dico cosa ho consigliato loro di rispondere, perché è la spiegazione che dovremmo dare a noi stessi e a chi ci interroga sullo stesso problema. Noi crediamo in un Dio uno e trino perché crediamo che Dio è amore. Ogni amore è amore di qualcuno, o di qualcosa; non si dà un amore a vuoto, senza oggetto, come non si dà conoscenza che non sia conoscenza di qualcuno o di qualcosa.
Orbene, chi ama Dio per essere definito amore? L’universo? L’umanità? Ma allora è amore solo da qualche decina di miliardi di anni, da quando cioè esiste l’universo fisico e l’umanità. Prima di allora chi amava Dio per essere l’amore, dal momento che Dio non può cambiare e cominciare ad essere ciò che in precedenza non era? I pensatori greci, concependo Dio soprattutto come “pensiero”, potevano rispondere, come fa Aristotele nella sua Metafisica: Dio pensava se stesso; era “puro pensiero”, “pensiero di pensiero” . Ma questo non è più possibile, nel momento in cui si dice che Dio è amore, perché il “puro amore di se stesso” sarebbe solo egoismo o narcisismo.
Ed ecco la risposta della rivelazione, definita nel concilio di Nicea del 325. Dio è amore da sempre, ab aeterno, perché prima ancora che esistesse un oggetto fuori di sé da amare, aveva in se stesso il Verbo, “il Figlio unigenito” che amava con un amore infinito che è lo Spirito Santo.
Tutto questo non spiega come l’unità possa essere contemporaneamente trinità, mistero inconoscibile da noi perché avviene solo in Dio. Ci aiuta però a intuire perché in Dio l’unità deve essere anche comunione e pluralità. Dio è amore: perciò è Trinità! Un Dio che fosse pura conoscenza o pura legge, o potere assoluto, non avrebbe certamente bisogno di essere trino. Questo anzi complicherebbe le cose. Nessun triumvirato e nessuna diarchia sono mai durati a lungo nella storia!
Anche i cristiani credono dunque nell’unità di Dio e sono perciò monoteisti; un’unità, però, non matematica e numerica, ma d’amore e di comunione. Se c’è qualcosa che l’esperienza dell’annuncio dimostra essere ancora capace di aiutare gli uomini d’oggi, se non a spiegare, almeno a farsi un’idea della Trinità, questo, ripeto, è proprio quello che fa perno sull’amore. Dio è “atto puro” e questo atto è un atto d’amore, dal quale emergono, simultaneamente e ab aeterno, un amante, un amato e l’amore che li unisce.

Il mistero dei misteri non è, a pensarci bene, la Trinità, ma capire cos’è in realtà l’amore! Essendo esso l’essenza stessa di Dio, non ci sarà dato di capire appieno cos’è l’amore neppure nella vita eterna. Ci sarà dato, tuttavia, qualcosa di meglio che conoscerlo, e cioè possederlo e saziarcene eternamente. Non si può abbracciare l’oceano, ma vi si può entrare dentro!

Perché l’incarnazione?

Passiamo all’altro grande mistero da credere e da annunciare al mondo: l’Incarnazione del Verbo. Alla luce della rivelazione di Dio come amore, anch’esso, vedremo, acquista una nuova dimensione. Domando perdono se in questa parte chiedo forse uno sforzo di attenzione superiore a quello che è lecito chiedere agli ascoltatori in una predica, ma credo che lo sforzo valga la pena di essere fatto almeno una volta in vita.
Ripartiamo dalla famosa domanda di sant’Anselmo (1033-1109): “Perché Dio si è fatto uomo?” Cur Deus homo? È nota la sua risposta. È perché solamente uno che fosse nello stesso tempo uomo e Dio poteva riscattarci dal peccato. Come uomo, infatti, egli poteva rappresentare tutta l’umanità e, come Dio, quello che faceva aveva un valore infinito, proporzionato al debito che l’uomo aveva contratto con Dio peccando.
La risposta di sant’Anselmo è perennemente valida, ma non è l’unica possibile, e neppure del tutto soddisfacente. Nel credo professiamo che il Figlio di Dio si è fatto carne “per noi uomini e per la nostra salvezza”, ma non si limita la nostra salvezza alla sola remissione dei peccati, tanto meno di un peccato particolare, quello originale. Resta spazio, dunque, per un approfondimento della fede.
È quello che cerca di fare il beato Duns Scoto (1265 – 1308). Dio – dice – si è fatto uomo perché questo era il progetto divino originario, anteriore alla stessa caduta: che, cioè, il mondo – creato “per mezzo di Cristo e in vista di lui” (Col 1, 16) – trovasse in lui, “nella pienezza dei tempi”, il suo coronamento e la sua ricapitolazione (Ef 1,10).
Dio, scrive Scoto, “anzitutto ama se stesso; poi “vuole essere amato da qualcuno che lo ami in grado sommo fuori di se stesso”; perciò “prevede l’unione con la natura che doveva amarlo in grado sommo”. Questo amante perfetto non poteva essere nessuna creatura, essendo finita, ma solo il Verbo eterno. Questi perciò si sarebbe incarnato “anche se nessuno avesse peccato” . Il peccato di Adamo non ha determinato il fatto stesso dell’incarnazione, ma solo la sua modalità di espiazione mediante la passione e la morte.
All’inizio di tutto c’è ancora, purtroppo, in Scoto, come si vede, un Dio da amare più che un Dio che ama. È un residuo della visione filosofica del Dio “motore immobile”, che può essere amato, ma non può amare. “Dio – aveva scritto Aristotele – muove il mondo in quanto è amato”, cioè in quanto oggetto d’amore, non in quando ama . In linea con la visione occidentale della Trinità, Scoto pone la natura divina, non la persona del Padre, all’inizio del discorso su Dio. E la natura, a differenza della persona, non è un soggetto che ama! In ciò i nostri fratelli ortodossi, eredi dei Padri greci, hanno visto più giusto di noi latini.
Su questo punto, la Scrittura ci chiama tutti, credo, a fare oggi un passo avanti, anche rispetto a Scoto, sempre consapevoli, tuttavia, che le nostre affermazioni su Dio altro non sono che labili segni tracciati col dito sulla superficie dell’oceano. Dio Padre decide l’incarnazione del Verbo non perché vuole avere fuori di sé qualcuno che lo ami in modo degno di sé, ma perché vuole avere fuori di sé qualcuno da amare in modo degno di sé! Non per ricevere amore, ma per effonderlo. Presentando Gesù al mondo, nel Battesimo e nella Trasfigurazione, il Padre celeste dice: “Questi è il Figlio mio, l’amato” (Mc 1, 11; 9,7); non dice: “l’amante”, ma “l’amato”.
Solo il Padre, nella Trinità (e in tutto l’universo!), non ha bisogno di essere amato per esistere; ha bisogno soltanto di amare. Questo è ciò che garantisce il ruolo del Padre come fonte e origine unica della Trinità, mantenendo, nello stesso tempo, la perfetta uguaglianza di natura tra le tre divine persone. C’è, all’origine di tutto, la folgorante intuizione di Agostino e della scuola nata da lui. Essa definisce il Padre come l’amante, il Figlio come l’amato e lo Spirito Santo come l’amore che li unisce . In ciò anche noi Latini abbiamo qualcosa di prezioso e di essenziale da offrire per una sintesi ecumenica. Grazie a Dio, una piena riconciliazione tra le due teologie non sembra più tanto difficile e lontana, ciò che segnerebbe un passo avanti decisivo verso l’unità delle Chiese.

Perché la passione?

Veniamo ora al terzo grande mistero: la passione di Cristo che ci apprestiamo a celebrare a Pasqua. Vediamo come, partendo dalla rivelazione di Dio come amore, anch’esso si illumina di luce nuova. “Dalle sue piaghe siete stati guariti”: con queste parole, dette del Servo di Jahvè (Is 53, 5-6), la fede della Chiesa ha espresso il significato salvifico della morte di Cristo (1 Pt 2,24). Ma possono piaghe, croce e dolore – fatti negativi e, come tali, solo privazione di bene – produrre una realtà positiva qual è la salvezza di tutto il genere umano? La verità è che noi non siamo stati salvati dal dolore di Cristo, ma dal suo amore! Più precisamente, dall’amore che si esprime nel sacrificio di se stesso. Dall’amore crocifisso!

Ad Abelardo che, già a suo tempo, trovava ripugnante l’idea di un Dio che si “compiace” della morte del Figlio, san Bernardo rispondeva: “Non fu la sua morte che gli piacque, ma la sua volontà di morire spontaneamente per noi”: “Non mors, sed voluntas placuit sponte morientis” .
Il dolore di Cristo conserva tutto il suo valore e la Chiesa non smetterà mai di meditare su di esso: non, però, come causa, per se stesso, di salvezza, ma come segno e dimostrazione dell’amore: “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi (Rom 5,8). La morte è il segno, l’amore il significato. L’evangelista san Giovanni pone come una chiave di lettura all’inizio del suo racconto della Passione: “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13, 1).
Questo toglie alla passione di Cristo una connotazione che ha sempre lasciato perplessi e insoddisfatti: l’idea, cioè, di un prezzo e di un riscatto da pagare a Dio (o, peggio, al demonio!), di un sacrificio con cui placare l’ira divina. In realtà, è piuttosto Dio che ha fatto il grande sacrificio di darci il suo Figlio, di non “risparmiarselo”, come Abramo fece il sacrificio di non risparmiarsi il figlio Isacco (Gen 22, 16; Rom 8, 32). Dio è più il soggetto che il destinatario del sacrificio della croce!

Un amore degno di Dio

Adesso dobbiamo vedere cosa cambia nella nostra vita la verità che abbiamo contemplato nei misteri di Trinità, Incarnazione e Passione di Cristo. E qui ci aspetta la sorpresa che non manca mai quando si cerca di approfondire i tesori della fede cristiana. La sorpresa è scoprire che, grazie alla nostra incorporazione a Cristo, anche noi possiamo amare Dio con un amore infinito, degno di lui!
San Paolo scrive che: “L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori” (Rom 5,5). L’amore che è stato riversato in noi è quello stesso con cui il Padre, da sempre, ama il Figlio, non un amore diverso! “Io in loro e tu in me -dice Gesú al Padre- perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (Gv 17, 23. 26). Notare: “l’amore con cui mi hai amato”, non uno diverso. È un traboccare dell’amore divino dalla Trinità a noi. Dio comunica all’anima –scrive san Giovanni della Croce – “lo stesso amore che comunica al Figlio, anche se ciò non avviene per natura, come nel caso del Figlio, ma per unione” .
La conseguenza è che noi possiamo amare il Padre con l’amore con cui lo ama il Figlio e possiamo amare Gesù con l’amore con cui lo ama il Padre. Tutto, grazie allo Spirito Santo che è quello stesso amore. Cosa diamo, allora, a Dio di nostro, quando gli diciamo: “Ti amo!”? Nient’altro che l’amore che riceviamo da lui! Nulla dunque, assolutamente, da parte nostra? È forse il nostro amore per Dio nient’altro che un “rimbalzare” del suo stesso amore verso di lui, come l’eco che rimanda il suono alla sua sorgente?
Non in questo caso! L’eco del suo amore ritorna a Dio dalla cavità del nostro cuore, ma con una novità che per Dio è tutto: il profumo della nostra libertà e della nostra gratitudine di figli! Tutto questo si realizza, in modo esemplare, nell’Eucaristia. Cosa facciamo in essa, se non offrire al Padre, come “nostro sacrificio”, quello che, in realtà, il Padre stesso ha donato a noi, e cioè il suo Figlio Gesù?
Noi possiamo dire a Dio Padre: “Padre, ti amo con l’amore con cui ti ama il tuo Figlio Gesù!” E dire a Gesù: “Gesù, ti amo con l’amore con cui ti ama il Padre tuo celeste”. E sapere con certezza che non è una pia illusione! Ogni volta che, pregando, cerco di farlo io stesso, mi torna alla mente l’episodio di Giacobbe che si presenta al padre Isacco per ricevere la benedizione, spacciandosi per il fratello maggiore (Gen 27, 1-23). E cerco di immaginare quello che potrebbe dire tra sé Dio Padre, in quel momento: “Veramente, la voce non è proprio quella del mio Figlio primogenito; ma le mani, i piedi e tutto il corpo sono le stesse che mio Figlio ha preso sulla terra e ha portato quassù in cielo”.
E sono sicuro che mi benedice, come Isacco benedisse Giacobbe! E benedice, tutti voi Venerabili Padri, fratelli e sorelle. È lo splendore della nostra fede di cristiani. Speriamo di essere in grado di trasmetterne qualche frammento agli uomini e alle donne del nostro tempo, che sono assetati d’amore, ma ne ignorano la sorgente.

1.H. de Lubac, Exégèse médièvale, I, 2, Parigi 1959, p. 670.
2.Gregorio Magno, Moralia in Job, Epist. Missoria, 4 (PL 75, 515).
3.Henri de Lubac, Histoire et Esprit, Aubier, Paris 1950.
4.Aristotele, Metafisica, XII,7, 1072b.
5.Duns Scoto, Opus Parisiense, III, d. 7, q. 4 (Opera omnia, XXIII, Parigi 1894, p. 303).
6.Aristotele, Metafisica, XII,7, 1072b.
7.Agostino, De Trinitate,VIII, 9,14; IX, 2,2; XV,17,31; Riccardo di San Vittore, De Trin. III,2.18; Bonaventura, I Sent. d. 13, q.1.
8.Bernardo di Chiaravalle, Contro gli errori di Abelardo, VIII, 21-22: “Non mors, sed voluntas placuit sponte morientis”.
9.Giovanni della Croce, Cantico spirituale A, strofa 38, 4.


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03/04/2023 19:04

MYSTERIUM FIDEI! Riflessioni sulla Liturgia - Quarta Predica di Quaresima 2023


Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, dopo quelle sull’evangelizzazione e sulla teologia, vorrei proporre oggi alcune riflessioni sulla liturgia e sul culto della Chiesa, sempre con l’intenzione di apportare un contributo, per quanto modesto e indiretto, ai lavori del sinodo. La liturgia è il punto di arrivo, ciò a cui tende l’evangelizzazione. Nella parabola evangelica, i servitori sono inviati per le strade e i crocicchi per invitare tutti al banchetto. La Chiesa è la sala del banchetto e l’Eucarestia “il pasto del Signore” (1 Cor 11, 20) in essa preparato.


Partiamo, nelle nostre riflessioni, da una parola della Lettera agli Ebrei: Per accostarsi a Dio – essa dice –, bisogna, anzitutto, “credere che egli esiste” (Eb 11, 6). Prima ancora, però, di credere che egli esiste (che è già un essersi accostati), è necessario avere almeno il “sentore” della sua esistenza. Questo è ciò che chiamiamo il senso del sacro e che un autore famoso chiama “il numinoso”, qualificandolo come “mistero tremendo e affascinante” . Sant’Agostino ha sorprendentemente anticipato questa scoperta della moderna Fenomenologia religiosa. Rivolto a Dio, nelle Confessioni, dice: “Quando ti ho conosciuto per la prima volta…, ho tremato di amore e di spavento: contremui amore et orrore” . E altrove dice: “Rabbrividisco e ardo” (et inhorresco et inardesco): rabbrividisco per la distanza, ardo per la somiglianza” .


Se venisse a mancare del tutto il senso del sacro, verrebbe a mancare il terreno stesso, o il clima, in cui sboccia l’atto di fede. Charles Péguy ha scritto che “la spaventosa penuria e indigenza del sacro è il marchio profondo del mondo moderno”. Se è caduto il senso del sacro, ne è rimasto, però, il rimpianto che qualcuno ha definito, laicamente, “nostalgia del Totalmente Altro” .


I giovani, più di tutti, avvertono questo bisogno di essere trasportati fuori dalla banalità del quotidiano, di evadere, e hanno inventato dei modi loro propri di soddisfare questo bisogno. È stato osservato da studiosi della psicologia di massa che i giovani che partecipavano un tempo a famosi concerti rock, come quelli dei Beatles, di Elvis Presley o il Woodstock Festival del 1969, erano trasportati fuori dal loro mondo quotidiano e proiettati in una dimensione che dava loro l’impressione di qualcosa di trascendente e di sacro.


Non diversamente avviene per quelli che partecipano oggi ai mega-raduni di cantanti e complessi canori. Il fatto di essere in tanti e di vibrare all’unisono con una massa amplifica all’infinito la propria emozione. Si ha il sentimento di far parte di una realtà diversa, superiore, che dà luogo a una sorta di “devozione. Il termine “fan” (abbreviazione di fanatic, cioè fanatico) è il corrispettivo secolarizzato di “devoto”. La qualifica di “idoli” data ai loro beniamini ha una profonda corrispondenza con la realtà.


Questi raduni di massa possono avere il loro valore artistico e veicolare talora messaggi nobili e positivi, come la pace e l’amore. Sono “liturgie”, nel senso originario e profano del termine, cioè spettacoli offerti al pubblico, per dovere, o per ottenerne il favore. Non hanno però nulla a che vedere con l’autentica esperienza del sacro. Nel titolo “Divina liturgia”, l’aggettivo divina è stato aggiunto proprio per distinguerla dalle liturgie umane. C’è una differenza qualitativa tra le due cose.


Proviamo a vedere attraverso quali mezzi la Chiesa può essere, per gli uomini d’oggi, il luogo privilegiato di una vera esperienza di Dio e del trascendente. La prima occasione a cui si pensa, anche per la somiglianza esterna, sono i grandi raduni promossi dalle varie Chiese cristiane. Pensiamo, per esempio, alle giornate mondiali della gioventù, e agli innumerevoli eventi – congressi, convegni e convocazioni – a cui prendono parte decine (a volte centinaia) di migliaia di persone in tutto il mondo. Non si conta il numero di persone per le quali tali eventi sono stati l’occasione di una esperienza forte di Dio e l’inizio di un rapporto nuovo e personale con Cristo.


Quello che fa la differenza tra questo tipo di incontri di massa e quelli descritti sopra è che qui il protagonista non è una personalità umana, ma Dio. Il senso del sacro che in essi si sperimenta è l’unico veramente genuino, e non un suo surrogato, perché è suscitato dal Santo dei Santi, e non da un “idolo”.


Questi, tuttavia, sono eventi straordinari, ai quali non tutti e non sempre possono partecipare. L’occasione per eccellenza e più comune, per un’esperienza del sacro nella Chiesa, è la liturgia. La liturgia cattolica si è trasformata, in poco tempo, da azione a forte impronta sacrale e sacerdotale, in azione più comunitaria e partecipata, dove tutto il popolo di Dio ha la sua parte, ognuno con il proprio ministero.


Vorrei cercare di dire come io vedo e spiego a me stesso questo cambiamento. Non è assolutamente per ergermi a giudice del passato, ma per comprendere meglio il presente. Il presente nella Chiesa non è mai rinnegamento del passato, ma suo arricchimento; oppure, come in questo caso, superamento del passato recente per recuperare quello più antico e originario.


Nell’evoluzione della Chiesa intesa come popolo, avviene qualcosa di simile a ciò che avviene con la Chiesa intesa come edificio. Pensiamo ad alcune celebri basiliche e cattedrali: quante trasformazioni architettoniche nel corso dei secoli per rispondere ai bisogni e ai gusti di ogni epoca! Ma è sempre la stessa Chiesa, dedicata allo stesso santo. Se c’è una tendenza generale in atto in epoca moderna, è quella di riportare tali edifici – quando ciò è possibile e ne vale la pena – alla loro struttura e stile originari. La stessa tendenza è in atto per la Chiesa come popolo di Dio e in particolare per la sua liturgia. Il Concilio Vaticano II ne è stato un momento decisivo, ma non l’inizio assoluto. Esso ha raccolto i frutti di tanto lavoro precedente.


Non è certo il caso di addentrarci qui nella storia secolare della Liturgia – altri l’hanno fatto e proprio dal punto di vista che ci interessa Vorrei solo evidenziare l’evoluzione che riguarda il senso del sacro. All’inizio della Chiesa e per i primi tre secoli, la liturgia è davvero una “liturgia”, cioè azione del popolo (laos, popolo, è tra le componenti etimologiche di leitourgia). Da san Giustino, dalla Traditio Apostolica di sant’Ippolito ed altre fonti del tempo, ricaviamo una visione della Messa certamente più vicina a quella riformata di oggi che a quella dei secoli che abbiamo alle spalle. Che cosa è avvenuto dopo di allora? La risposta è in una parola che non possiamo evitare: clericalizzazione! In nessun altro ambito essa ha agito più vistosamente che nella liturgia.


Il culto cristiano, e in particolare il sacrificio eucaristico, si trasformò rapidamente, in Oriente e in Occidente, da azione del popolo in azione del clero. Per secoli e secoli, la parte centrale della Messa, il Canone, era pronunciato in latino dal sacerdote, a bassa voce, dietro una cortina o un muro (quasi un tempio nel tempio!), fuori della vista e dell’ascolto del popolo. Il celebrante alzava la voce solo alle parole finali del Canone: “Per omnia saecula saeculorum”, e il popolo rispondeva “Amen!” a ciò che non aveva sentito e tanto meno capito. L’unico contatto con l’Eucaristia, annunciato dal suono delle campane o del campanello, era il momento dell’elevazione dell’Ostia.


C’è un evidente ritorno a ciò che avveniva nel culto dell’Antico Testamento, quando il Sommo Sacerdote entrava nel Sancta sanctorum, con incensi e sangue delle vittime, e il popolo rimaneva fuori tremante, sopraffatto dal senso della maestà e inaccessibilità di Dio.


Il senso del sacro è qui fortissimo, ma, dopo Cristo, è esso quello giusto e genuino? Nella Lettera agli Ebrei leggiamo: Voi infatti non vi siete avvicinati … a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole…Lo spettacolo, in realtà, era così terrificante che Mosè disse: Ho paura e tremo (Es 19, 16-18; Dt 9,19). Voi invece vi siete accostati… a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova, e al sangue purificatore, che è più eloquente di quello di Abele (Ebr 12, 18-24). Cristo è penetrato oltre il velo e non ha richiuso il varco dietro di sé (Ebr 10,20).


Il sacro ha cambiato il modo di manifestarsi: non più come mistero di maestà e potenza, ma come infinita capacità di farsi da parte, di nascondimento. Dopo la consacrazione, il celebrante dice o canta: “Mistero della fede!”Alcuni di noi più anziani ricorderanno che una volta l’esclamazione era inserita addirittura nel mezzo della formula di consacrazione del vino: “Hic est enim calix sanguinis mei, novi et aeterni testamenti -Mysterium fidei!- qui pro vobis et pro multis effundetur in remissionem peccatorum”. Come se la Chiesa si fermasse, a metà del racconto, stupefatta di quello che stava dicendo!


La riforma ha fatto bene, naturalmente, a spostare tale esclamazione alla fine della consacrazione, ma dovremmo non perdere il senso di stupore racchiuso in essa e soprattutto capire quale deve essere il motivo vero del nostro stupore. Esso deve essere dello stesso genere di quello che si legge nei carmi del Servo di Jahvé:


Così si meraviglieranno di lui molte nazioni;
i re davanti a lui si chiuderanno la bocca,
poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato
e comprenderanno ciò che mai avevano udito.
(Is 52, 15- 53,1)

Stupore e meraviglia, sì, ma davanti a che cosa? Non alla maestà, ma all’umiliazione del Servo! Uno che aveva acutissimo questo sentimento era san Francesco d’Assisi: “L’umanità trepidi – scriveva in una sua lettera a tutto l’Ordine –, l’universo intero tremi e il cielo esulti quando sull’altare, nelle mani del sacerdote, è il Cristo, figlio del Dio vivo”. Ma “trepidare e tremare” per che cosa”? Ascoltiamo il seguito: “O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili da nascondersi, per la nostra salvezza, sotto poca apparenza di pane! Guardate, fratelli, I’umiltà di Dio!” .

Si tratta solo di non sciupare questa possibilità offerta dalla liturgia rinnovata con improvvisazioni arbitrarie e bizzarre, e mantenere la necessaria sobrietà e compostezza, anche quando la Messa viene celebrata in situazioni e ambienti particolari.

In tutte le preghiere eucaristiche passate e presenti, l’invito che segue immediatamente la consacrazione è sempre quello a ricordare: “Unde et memores”, “facendo dunque memoria”. È la risposta al comando di Gesù: “Fate questo in memoria di me!” Ma, di lui, che cosa dobbiamo soprattutto ricordare? “Ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore” (1 Cor 11, 26).

Cerchiamo di andare una volta oltre le parole, o meglio di dare alle parole un contenuto esistenziale e non solo rituale. Riportiamoci al momento in cui Gesú le pronunciò; cerchiamo –per quanto i racconti evangelici ci permettono di sapere – di cogliere in quali condizioni interiori quella parola “Fate questo in memoria di me!”, uscì dalla bocca del Redentore. Egli vede con chiarezza a che cosa sta andando incontro. Più volte ne ha parlato, ma come da lontano. Ora il momento è giunto; non c’è più neppure l’intervallo di tempo ad attenuare l’angoscia. Le parole: “Questo è il calice del mio sangue” non lasciano dubbi. È uno che sta andando incontro alla morte e a una morte orribile. “Qui pridie quam pateretur”: il giorno prima di soffrire la passione …

E cosa avviene intorno a lui? Gli apostoli trovano il modo di discutere ancora una volta su chi è il più grande (Lc 22, 24-27), come fratelli che litigano per spartirsi l’eredità intorno al letto di morte del proprio padre. Uno di loro, fra poche ore, lo venderà per 30 denari: “In qua nocte tradebatur”: nella notte in cui veniva tradito. In queste condizioni istituisce il sacramento con il quale si impegna a rimanere con i suoi fino alla fine del mondo. Dove trovare un mistero più “tremendo e affascinante” di questo? Il giorno che il Signore ci concedesse, per un attimo solo, di gettare uno sguardo fino al fondo di questo abisso di amore e di dolore, credo che non potremmo più vivere come prima. Questo spiega perché san Pio di Pietrelcina sembrava lottare nella Messa e non riuscire a portare a termine la consacrazione.

Ma adesso dobbiamo completare la nostra rivisitazione della Messa. Essa non consiste solo nel Canone con la consacrazione; ci sono anche la Liturgia della Parola e la Comunione. Noi abbiamo a disposizione alcuni mezzi che in passato non esistevano, per valorizzare la Liturgia della Parola e fare anche di essa l’occasione per una esperienza del sacro. Grazie al cammino che la Chiesa ha fatto nel frattempo in molti campi, noi abbiamo un accesso nuovo, più diretto, alla Parola di Dio. Essa può risuonare con una ricchezza e intelligenza più grandi che non nel passato.

L’attuale liturgia è ricchissima di Parola di Dio, disposta sapientemente, secondo l’ordine della storia della salvezza, in un quadro di riti spesso riportati alla linearità e semplicità delle origini. Dobbiamo valorizzare questi mezzi. Niente può fare breccia nel cuore dell’uomo e fargli sentire la trascendente realtà di Dio, meglio che una vivente parola di Dio, proclamata con fede e aderenza alla vita, durante la liturgia. La fede – dice san Paolo – nasce dall’ascolto della parola di Cristo: Fides ex auditu (Rm 10, 17).

Tante parole di Gesú, magari ascoltate poco prima nel Vangelo del giorno, al momento della consacrazione tornano a risuonare nel cuore, come pronunciate di nuovo dal loro autore vivo e realmente presente sull’altare. Io ricorderò sempre il giorno che, dopo aver commentato nel Vangelo la parola di Gesú: “Ecco, ora qui c’è più di Giona; ora qui c’è più di Salomone” (cf. Mt 12, 41-42), rialzandomi dalla genuflessione dopo la consacrazione, mi venne da esclamare dentro di me, convinto e pieno di stupore: “Ecco, ora qui c’è più di Salomone!”.

Anche la lettura dall’Antico Testamento, dal confronto con il brano evangelico, sprigiona significati nuovi e illuminanti. Nel passaggio dalla figura alla realtà, la mente – diceva sant’Agostino – si accende come “una torcia in movimento” . Come ai due discepoli di Emmaus, Gesú continua a spiegarci “quello che in tutte le Scritture si riferisce a lui” (cf. Lc 24,27).

E poi, dicevo, la Comunione. Come può la liturgia fare, anche di questo momento, l’occasione per una esperienza del sacro, non solo a livello individuale, ma anche comunitario? Direi, con il silenzio. Esistono due specie di silenzio: un silenzio che possiamo chiamare ascetico e un silenzio mistico. Un silenzio con il quale la creatura cerca di elevarsi fino a Dio e un silenzio provocato da Dio che si fa vicino alla creatura. Il silenzio che segue la Comunione è un silenzio mistico, come quello che si osserva nelle teofanie dell’Antico Testamento. Dopo la comunione dovremmo ripetere a noi stessi la parola del profeta Sofonia (1,7): “Silenzio alla presenza del Signore Dio!” Non dovrebbe mancare mai qualche momento, anche se breve, di assoluto silenzio dopo la Comunione.

La tradizione cattolica ha sentito il bisogno di prolungare e dare più spazio a questo momento di personale contatto con il Cristo eucaristico e ha sviluppato nei secoli, soprattutto a partire dal sec. XIII, il culto dell’Eucaristia fuori della Messa. Esso non è un culto a parte, staccato e indipendente dal sacramento; è un continuare a “fare memoria” di Cristo: dei suoi misteri e delle sue parole, un modo di “ricevere” Gesú sempre più in profondità nella nostra vita. Un modo di interiorizzare il mistero ricevuto. L’adorazione eucaristica è il segno più chiaro che l’umiltà e il nascondimento di Cristo nell’Eucaristia non ci fanno dimenticare che siamo in presenza del “Santissimo”, di colui che, con il Padre e lo Spirito Santo, ha creato il cielo e la terra.

Dove essa viene praticata – da parrocchie, individui e comunità – i suoi frutti sono visibili, anche come momento di evangelizzazione. Una chiesa piena di fedeli in perfetto silenzio, durante un’ora di adorazione davanti al Santissimo esposto, farebbe dire a chi entrasse, per caso, in quel momento: “Qui c’è Dio!”. Ricordo il commento di un non-cattolico, al termine di un’ora di adorazione eucaristica silenziosa, in una grande chiesa parrocchiale degli Stati Uniti, gremita di fedeli: “Adesso capisco –disse a un amico – cosa intendete voi cattolici quando parlate di “presenza reale”!

Se c’è un motivo per cui io rimpiango il latino, è che con la sua scomparsa stanno scomparendo dall’uso alcuni canti nati per questi momenti e che sono serviti a generazioni di credenti di tutte le lingue per esprimere la loro calda devozione al Gesú dell’Eucaristia: l’Adoro te devote, l’Ave verum, il Panis angelicus. Essi sopravvivono ormai quasi solo per la musica che artisti celebri hanno scritto su quei testi.

Noi “ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio” (1 Cor 4,1) e, in modi diversi, ogni fedele impegnato nel culto della Chiesa, potremmo sentirci schiacciati e impotenti davanti a un compito così sublime. Ne avremmo tutte le ragioni. Come aiutare gli uomini di oggi a fare, nella liturgia, una esperienza del sacro e del soprannaturale, noi che sperimentiamo in noi stessi tutta la pesantezza della carne e la sua refrattarietà allo spirito? Anche qui la risposta è sempre la stessa: “Avrete forza dallo Spirito Santo!” Egli, che è definito “l’anima della Chiesa”, è anche l’anima della sua liturgia, la luce e la forza dei riti.

È un dono che la riforma liturgica del Vaticano II abbia messo nel cuore della Messa l’epiclesi, cioè l’invocazione dello Spirito Santo: prima sul pane e sul vino e poi sull’intero corpo mistico della Chiesa. Io ho un grande rispetto per la veneranda preghiera eucaristica del Canone Romano e amo utilizzarla ancora, qualche volta, essendo quella con cui fui ordinato sacerdote. Non posso, però, non notare con rammarico la totale assenza in essa dello Spirito Santo. Al posto dell’attuale epiclesi consacratoria sul pane e sul vino, troviamo, in esso, la formula generica: “Santifica, o Dio, questa offerta con la potenza della tua benedizione…”.

È stata, anche questa, una triste conseguenza della polemica tra Oriente e Occidente. Essa ha spinto, in passato, noi Latini a mettere tra parentesi il ruolo dello Spirito Santo per attribuire tutta l’efficacia alle parole dell’istituzione e ha spinto i Greci a mettere tra parentesi le parole dell’istituzione per attribuire tutta l’efficacia all’azione dello Spirito Santo. Come se il mistero si compisse per una specie di reazione chimica di cui si può determinare l’istante preciso in cui avviene.

C‘è tuttavia una perla che il Canone Romano ha tramandato di generazione in generazione e che la riforma liturgica ha giustamente conservato e inserito in tutte le nuove preghiere eucaristiche: appunto la dossologia finale: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli”: Per ipsum, cum ipso et in ipso est tibi, Deo Patri omnipotenti, in unitate Spiritus Sancti, omnis honor et gloria per omnia saecula saeculorum.

Questa formula esprime una verità fondamentale che san Basilio ha formulato nel primo trattato scritto sullo Spirito Santo. Sul piano dell’essere, o dell’uscita delle creature da Dio, scrive, tutto parte dal Padre, passa per il Figlio e giunge a noi nello Spirito; nell’ordine della conoscenza, o del ritorno delle creature a Dio, tutto comincia con lo Spirito Santo, passa per il Figlio Gesù Cristo e ritorna al Padre . Essendo la liturgia il momento per eccellenza del ritorno delle creature a Dio, tutto in essa deve partire e prendere slancio dallo Spirito Santo.

Il messale antico conteneva tutta una serie di preghiere che il sacerdote doveva recitare in preparazione alla Messa. Oggi non potremmo preparaci alla celebrazione meglio che con una breve, ma intensa preghiera allo Spirito Santo perché rinnovi in noi l’unzione sacerdotale e metta nel nostro cuore lo stesso impulso che mise nel cuore di Cristo di offrici al Padre in sacrificio di soave odore. L’Epistola agli Ebrei dice che Gesú, “mosso da Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio” (Ebr 9,14). Preghiamo affinché quello che è avvenuto nel Capo possa avvenire anche in noi, membra del suo corpo.

1.Rudolph Otto, Il Sacro (Das Heilige, 1917).
2.St. Augustine, Confessions, VII, 10.
3.Ib. XI, 9.
4.Max Horkheimer.
5.Cf. Mario Righetti, Storia Liturgica, vol. III (La Messa), Milano 1966.
6.Francesco d’Assisi, Lettera al capitolo generale, 2 (FF 221).
7.Agostino, Ep. 55, 11, 21.
8.Cf. Basilio di Cesarea, Sullo Spirito Santo XVIII, 47 (PG 32 , 153).

 

[Modificato da MARIOCAPALBO 03/04/2023 19:13]
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03/04/2023 19:05

“ABBIATE CORAGGIO: IO HO VINTO IL MONDO!” - Quinta Predica, Quaresima 2023
“Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!” (Gv 16,33). Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, queste sono tra le ultime parole che Gesú rivolge ai suoi discepoli, prima di congedarsi da loro. Esse non sono il solito “Fatevi coraggio!” rivolto a chi resta, da parte di uno che sta per partire. Aggiunge infatti: “Non vi lascerò orfani: verrò da voi (Gv 14,18).

Che significa “verrò da voi” se sta per lasciarli? In che modo e in che veste verrà e rimarrà con loro? Se non si capisce la risposta a questa domanda, non si capirà mai la vera natura della Chiesa. La risposta è presente, come una specie di tema ricorrente, nei discorsi di addio del Vangelo di Giovanni ed è bene una volta ascoltare di seguito i versetti in cui essa diventa la nota dominante. Facciamolo con l’attenzione e la commozione con cui i figli ascoltano le disposizioni del padre circa il bene più prezioso che sta per lasciare ad essi:

Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi (14,16-17).

Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. (14,26)

Quando verrà il Paraclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio (15,26-27).

È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi (16, 7).

Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. (16,12-14)

Ma che cos’è e chi è lo Spirito Santo che promette? È lui stesso, Gesú, o un altro? Se è lui stesso, perché dice in terza persona: “quando verrà il Paraclito…”; se è un altro, perché dice in prima persona: “Verrò a voi”? Tocchiamo il mistero del rapporto tra il Risorto e il suo Spirito. Rapporto così stretto e misterioso che san Paolo sembra talvolta identificarli. Scrive infatti: “Il Signore è lo Spirito”, ma poi aggiunge senza soluzione di continuità: “e dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà” (2 Cor 3,17). Se è lo Spirito del Signore, non può essere, puramente e semplicemente, il Signore.
La risposta della Scrittura è che lo Spirito Santo, con la redenzione, è diventato “lo Spirito di Cristo”; è il modo con cui il Risorto opera ormai nella Chiesa e nel mondo, essendo stato “costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione, in virtù della risurrezione dai morti” (Rom 1,4). Ecco perché egli può dire ai discepoli: “È bene che io me ne vada” e aggiungere: “ma non vi lascerò orfani”.
Dobbiamo liberarci completamente da una visione della Chiesa formatasi a poco a poco e divenuta dominante nella coscienza di molti credenti. Io la definisco una visione deistica o cartesiana, per l’affinità che essa ha con la visione del mondo del deismo cartesiano. Come veniva concepito il rapporto tra Dio e il mondo in questa visione? Più o meno così: Dio all’inizio crea il mondo e poi si ritira, lasciando che si sviluppi con le leggi che gli ha dato; come un orologio a cui è stata data una carica sufficiente per funzionare indefinitamente per conto suo. Ogni nuovo intervento da parte di Dio turberebbe questo ordine, ragione per cui i miracoli sono ritenuti inammissibili. Dio, creando il mondo, farebbe come chi dà un buffetto a un palloncino e lo spinge in aria, rimanendo, lui, a terra.
Cosa significa questa visione applicata alla Chiesa? Che Cristo ha fondato la Chiesa, l’ha dotata di tutte le strutture gerarchiche e sacramentali per funzionare, e poi l’ha lasciata, ritirandosi nel suo cielo, al momento dell’Ascensione. Come chi spinge in mare una barchetta, rimanendo lui sulla riva.
Ma non è così! Gesú è salito sulla barca ed è dentro di essa. Bisogna prendere sul serio le sue ultime parole in Matteo: “Ecco, io sono con voi tutti i gironi, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). Ad ogni nuova tempesta, comprese quelle odierne, egli ci ripete ciò che disse agli apostoli nell’episodio della tempesta sedata: “Perché avete paura, gente di poca fede?” (Mt 8,26). Non ci sono io con voi? Posso affondare io? Può affondare in mare colui che ha creato il mare?
Ho notato con gioia che nell’Annuario Pontificio, sotto il nome del papa, c’è il solo titolo “Vescovo di Roma”; tutti gli altri titoli –Vicario di Gesú Cristo, Sommo Pontefice della Chiesa Universale, Primate d’Italia ecc. – sono elencati come “titoli storici” alla pagina seguente. Mi sembra giusto, soprattutto riguardo a “Vicario di Gesú Cristo”. Vicario è uno che fa le veci in assenza del capo, ma Gesù Cristo non si mai assentato e mai si assenterà dalla sua Chiesa. Con la sua morte e risurrezione, egli è divenuto “capo del corpo che è la Chiesa” (Col 1,18) e tale continuerà ad essere fino alla fine del mondo: il vero e unico Signore della Chiesa.
Non è, la sua, una presenza per così dire morale e intenzionale, non è una signoria per procura. Quando non possiamo presenziare di persona a qualche evento, noi diciamo di solito: “Sarò presente spiritualmente!”, ciò che non è di molta consolazione e aiuto a chi ci ha invitato. Quando diciamo di Gesú che è presente “spiritualmente”, questa presenza spirituale non è una forma meno forte di quella fisica, ma infinitamente più reale ed efficace. È la presenza di lui risorto che agisce nella potenza dello Spirito, agisce in ogni tempo e luogo, e agisce dentro di noi.

Se nell’attuale situazione di crescente crisi energetica, si scoprisse l’esistenza di una sorgente di energia nuova, inesauribile; se si scoprisse finalmente come utilizzare a piacimento e senza effetti negativi l’energia solare, che sollievo sarebbe per l’umanità intera! Ebbene la Chiesa ha, nel suo campo, una simile sorgente inesauribile di energia: la “potenza dall’alto” che è lo Spirito Santo. Gesú potrebbe dire di lui: “Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena (Gv 16, 24).

C’è un momento nella storia della salvezza che richiama da vicino le parole di Gesú nell’ultima cena. Si tratta dell’oracolo del profeta Aggeo. Dice:

Il ventuno del settimo mese, per mezzo del profeta Aggeo fu rivolta questa parola del Signore: «Su, parla a Zorobabele, figlio di Sealtièl, governatore della Giudea, a Giosuè, figlio di Iosadàk, sommo sacerdote, e a tutto il resto del popolo, e chiedi: Chi rimane ancora tra voi che abbia visto questa casa nel suo primitivo splendore? Ma ora in quali condizioni voi la vedete? In confronto a quella, non è forse ridotta a un nulla ai vostri occhi? Ora, coraggio, Zorobabele – oracolo del Signore -, coraggio, Giosuè, figlio di Iosadàk, sommo sacerdote; coraggio, popolo tutto del paese – oracolo del Signore – e al lavoro, perché io sono con voi – oracolo del Signore degli eserciti…Il mio spirito sarà con voi, non temete (Ag 2, 1-5).
È uno dei pochissimi testi dell’Antico Testamento che si può datare con precisione: è il 17 Ottobre del 520 a.C. Non ci sembra che venga descritta, nelle parole di Aggeo, la situazione attuale della Chiesa cattolica, e per tanti aspetti quella di tutta la cristianità? Chi di noi è abbastanza anziano ricorda con nostalgia i tempi, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, in cui le chiese si riempivano di domenica, matrimoni e battesimi si susseguivano in parrocchia, i seminari e i noviziati religiosi abbondavano di vocazioni… “Ma ora in che condizioni la vediamo?”, potremmo dire con Aggeo? Non vale la pena spendere tempo per ripetere l’elenco dei mali presenti, di quelle che ad alcuni appaiono solo rovine, non diverse dai ruderi dell’antica Roma che abbiamo tutto intorno in questa città.
Non tutto era oro quello che luccicava un tempo e che siamo portati a rimpiangere. Se fosse stato tutto oro colato, se quei seminari pieni fossero stati fucine di santi pastori e la formazione tradizionale impartita in essi solida e vera, non avremmo oggi da piangere tanti scandali…Ma non è di questo che è il caso di parlare qui, e certamente non sono io il più qualificato a farlo. Quello che mi preme raccogliere è l’esortazione che il profeta rivolse quel giorno al popolo d’Israele. Egli non li esortò a piangersi addosso, a rassegnarsi ed essere preparati al peggio. No; dice come Gesú: “Coraggio e al lavoro perché io sono con voi – oracolo del Signore -; il mio Spirito sarà con voi!”.
Ma attenti: non si tratta di un vago e sterile “Fatevi coraggio”. Il profeta ha detto in precedenza qual è “il lavoro” a cui devono mettere mano. E siccome esso ci riguarda da vicino, ascoltiamo anche l’oracolo precedente di Aggeo al popolo e ai suoi capi:
Così parla il Signore degli eserciti: Questo popolo dice: “Non è ancora venuto il tempo di ricostruire la casa del Signore!”. Allora fu rivolta per mezzo del profeta Aggeo questa parola del Signore: “Vi sembra questo il tempo di abitare tranquilli nelle vostre case ben coperte, mentre questa casa è ancora in rovina? Ora, così dice il Signore degli eserciti: Riflettete bene sul vostro comportamento! Avete seminato molto, ma avete raccolto poco; avete mangiato, ma non da togliervi la fame; avete bevuto, ma non fino a inebriarvi; vi siete vestiti, ma non vi siete riscaldati; l’operaio ha avuto il salario, ma per metterlo in un sacchetto forato. … Salite sul monte, portate legname, ricostruite la mia casa. In essa mi compiacerò e manifesterò la mia gloria – dice il Signore. (Ag 1, 2-8).

La parola di Dio, una volta pronunciata, torna ad essere attiva e attuale ogni volta che viene di nuovo proclamata. Non è una semplice citazione biblica. Siamo noi adesso “questo popolo” a cui è rivolta la parola di Dio. Che cosa sono per noi oggi “le case ben coperte” (qualche traduzione dice: “ben arredate”) in cui siamo tentati di starcene tranquilli? Io vedo tre case concentriche, una dentro l’altra, da cui dobbiamo uscire per salire sul monte e ricostruire la casa di Dio.

La prima casa ben coperta, curata e arredata, è il mio “io”: la mia comodità, la mia gloria, la mia posizione nella società o nella Chiesa. È il muro più difficile da abbattere, il meglio dissimulato. È così facile scambiare il mio onore per l’onore di Dio e della Chiesa, l’attaccamento alle mie idee per attaccamento alla verità pura e semplice. Chi parla, in questo momento non crede di fare eccezione. Stiamo dentro questo nostro guscio come il baco da seta nel suo bossolo: intorno è tutta seta, ma se il baco non rompe il guscio, resterà bruco e non diventerà mai farfalla che vola.

Ma lasciamo da parte questo argomento, avendo tante occasioni per sentirne parlare. La seconda casa ben coperta da cui uscire per lavorare alla “casa del Signore”, è la mia parrocchia, il mio ordine religioso, movimento o associazione ecclesiale, la mia Chiesa locale, la mia diocesi…Non dobbiamo fraintenderci. Guai se non avessimo amore e attaccamento a queste realtà particolari nelle quali il Signore ci ha posto e di cui siamo forse responsabili. Il male è assolutizzarli, non vedere altro al di fuori di essa, non interessarsi che di essa, criticando e disprezzando chi non la condivide. Perdere di vista, insomma, la cattolicità della Chiesa. Dimenticare, dice spesso il Santo Padre, che “l’intero è maggiore della parte”. Siamo un corpo solo, il corpo di Cristo, e nel corpo, dice Paolo, “se un membro soffre tutto il corpo soffre” (1 Cor 12, 26). Il sinodo dovrebbe servire anche a questo: a renderci consapevoli e partecipi dei problemi e delle gioie di tutta la Chiesa cattolica.

Ma veniamo alla terza casa ben coperta. Uscire da essa è reso più difficile dal fatto che per secoli ci è stato inculcato che uscire da essa sarebbe stato peccato e tradimento. Leggevo di recente, in occasione della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, la testimonianza di una donna cattolica di un paese a religione mista. Da giovane il parroco insegnava che solo ad entrare fisicamente in una chiesa protestante si faceva peccato mortale. E suppongo che lo stesso si diceva, dall’altra parte dello steccato, dell’entrare in una Chiesa cattolica.

Parlo, naturalmente della terza casa ben coperta che è la particolare denominazione cristiana a cui apparteniamo e lo faccio nel ricordo ancora fresco dello straordinario e profetico evento dell’incontro ecumenico del Sud Sudan del febbraio scorso. Tutti siamo convinti che parte della debolezza della nostra evangelizzazione e azione nel mondo è dovuta alla divisione e alla lotta reciproca tra cristiani. Si verifica quello che Dio dice sempre nel nostro Aggeo:

Facevate assegnamento sul molto e venne il poco: ciò che portavate in casa io lo disperdevo. E perché? – oracolo del Signore degli eserciti. Perché la mia casa è in rovina, mentre ognuno di voi si dà premura per la propria casa. (Ag 1, 9).

Gesú disse a Pietro: “Su questa Pietra edificherò la mia Chiesa”. Non disse: “Edificherò le mie Chiese”. Ci deve essere un senso in cui quello che Gesú chiama “la mia Chiesa” abbraccia tutti i credenti in lui e tutti i battezzati. L’apostolo Paolo ha una formula che potrebbe assolvere questo compito di abbracciare tutti quelli che credono in Cristo. Nell’inizio della Prima Lettera ai Corinzi egli estende il suo saluto a: “Tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro” (1 Cor 1, 2).

Non possiamo accontentarci, certo, di questa unità così vasta, ma così vaga. E questo giustifica l’impegno e il confronto, anche dottrinale, tra le Chiese. Ma neppure possiamo disprezzare e non tener conto di questa unità di base che consiste nell’invocare lo stesso Signore Gesú Cristo. Chi crede nel Figlio di Dio crede anche nel Padre e nello Spirito Santo. È verissimo ciò che è stato ripetuto in più occasioni : “ciò che ci unisce è più importante di quello che ci divide”.

Nei casi in cui non possiamo non disapprovare l’uso che viene fatto del nome di Gesú e il modo in cui è annunciato il Vangelo, ci può aiutare a superare il rifiuto quello che san Paolo diceva di alcuni che a suo tempo annunciavano il Vangelo “con spirito di rivalità e con intenzioni non rette”. “Ma questo che importa?” – scriveva ai Filippesi- “Purché in ogni maniera, per convenienza o per sincerità, Cristo venga annunciato, io me ne rallegro” (Fil 1, 16-18). Senza dimenticare che anche i cristiani di altre denominazioni trovano in noi cattolici delle cose che non possono approvare.

L’oracolo di Aggeo sul tempio ricostruito termina con una promessa radiosa: “La gloria futura di questa casa sarà più grande di quella di una volta, dice il Signore degli eserciti; in questo luogo porrò la pace. Oracolo del Signore degli eserciti (Ag 2,9). Non osiamo dire che tale profezia si avvererà anche per noi e che la casa di Dio che è la Chiesa del futuro sarà più gloriosa di quella del passato che ora rimpiangiamo; possiamo però sperarlo e chiederlo a Dio in spirito di umiltà e pentimento.

Non mancano segni incoraggianti: uno tra i più evidenti è proprio la ricerca dell’unità tra i cristiani. Nell’intervista a un giornalista cattolico, nel viaggio di ritorno dal Sud Sudan, l’Arcivescovo Justin Welby, diceva: “Quando vediamo lavorare insieme, Chiese che in passato erano nemiche dichiarate, si attaccavano e bruciavano i sacerdoti le une dalle altre, condannandosi a vicenda nei termini più violenti: quando avviene questo vuol dire che c’è qualcosa di spirituale che sta accadendo. C’è una liberazione dello Spirito di Dio che dà grande speranza” .

La profezia di Aggeo che ho commentato, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, è legata a un ricordo personale e vi chiedo scusa se oso rievocarlo di nuovo in questa sede, dopo che alcuni di voi l’hanno forse già ascoltato da me in altra occasione. Lo faccio nella certezza che la parola profetica torna a sprigionare la sua carica di fiducia e di speranza ogni volta che viene proclamata e ascoltata con fede.
Il giorno che il mio Superiore generale mi concesse di lasciare l’insegnamento all’Università Cattolica, per dedicarmi a tempo pieno alla predicazione, c’era, nella Liturgia delle ore, la profezia di Aggeo che ho commentato. Dopo aver recitato l’Ufficio, venni qui in San Pietro. Volevo pregare l’Apostolo di benedire il mio nuovo ministero. A un certo punto, mentre ero nella piazza, quella parola di Dio mi tornò con forza alla mente. Mi rivolsi verso la finestra del papa nel Palazzo Apostolico e mi misi a proclamare ad alta voce: “Coraggio, Giovanni Paolo II, coraggio, cardinali, vescovi e popolo tutto della Chiesa: e al lavoro perché io sono con voi, dice il Signore”. Era facile farlo perché pioveva e non c’era nessuno all’intorno.
Se non che pochi mesi dopo, nel 1980, fui nominato Predicatore della Casa Pontificia e mi trovai in presenza del papa per iniziare la mia prima Quaresima. Quella parola tornò a risonare dentro di me, non come una citazione e un ricordo, ma come parola viva per quel momento. Raccontai quello che avevo fatto quel giorno in piazza San Pietro. Quindi mi rivolsi verso il papa che a quel tempo seguiva la predica da una cappella laterale, e ripetei con forza le parole di Aggeo: “Coraggio, Giovanni Paolo II, coraggio voi cardinali, vescovi, e popolo di Dio: e al lavoro perché io sono con voi, dice il Signore. Il mio Spirito sarà con voi”. E dagli sguardi mi parve di capire che la parola dava quello che prometteva: cioè coraggio, (anche se Giovanni Paolo II era l’ultima persona al mondo a cui si dovesse raccomandare di avere coraggio!).
Oggi oso proclamare di nuovo quella parola, sapendo che non si tratta di una semplice citazione, ma di una parola sempre viva che torna a operare ogni volta quello che promette. Coraggio, dunque, papa Francesco! Coraggio, fratelli cardinali, vescovi, sacerdoti e fedeli della Chiesa Cattolica e al lavoro, perché io sono con voi, dice il Signore. Il mio Spirito sarà con voi!”
Auguro a tutti una Santa Pasqua di pace e di speranza.

1.In “The Tablet”, 11 Febbraio 2023, p. 6.
[Modificato da MARIOCAPALBO 03/04/2023 19:13]
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