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Una via purifica una illumina una conduce a Dio (San.G.PaoloII)

«“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». Gesu'

 
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FORUM 7 - LA PAROLA DI DIO GENERA SOGNI

Ultimo Aggiornamento: 21/09/2023 20:29
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Città: CORIGLIANO CALABRO
Età: 55
Sesso: Maschile
21/09/2023 20:29

Nella Bibbia la Parola di Dio è parola che crea, che realizza quello che promette e fa essere, non è distante dalla storia, è Parola-che-fa la storia. La storia del mondo non è un tempo lineare e ci sono stagioni in cui è più difficile vedere e immaginare un futuro capace di eliminare le sofferenze e le distorsioni del presente: “La parola del Signore era rara in quei giorni, le visioni non erano frequenti” (I Sam. 3, 1). Nella Parola di Dio c’è anche il segreto per non appiattirsi sul presente e generare futuro con l’immaginazione di Dio e la sua amicizia per ogni donna e ogni uomo.





Ambrogio Spreafico

Vescovo cattolico, Italia
 biografia

Siamo in un tempo in cui sembra difficile, quasi impossibile sognare, perché al sogno si attribuisce a volte qualcosa che rimane solo nella mente e non diviene realtà. Eppure, la Bibbia è costellata di persone che sognano. Giacobbe sognò, Giuseppe sognò e fu interprete di sogni, così Daniele. Samuele udì la voce di Dio che lo chiamava per nome durante il sonno.  Anche Giuseppe nel Nuovo Testamento, secondo il Vangelo di Matteo, riceve la parola di Dio nel sogno. In quanto ci narrano le Scritture vediamo che il sogno è esattamente l’opposto dell’irrealtà. Anzi, il sogno aiuta a capire gli avvenimenti e prepara in qualche modo il futuro della storia, perché rivela quanto gli esseri umani da soli non saprebbero interpretare, tanto che il profeta Gioele parla di vecchi che avranno dei sogni. Il sogno si interseca con la storia, fa rivivere il passato nell’oggi per aiutare a guardare e a preparare il futuro.

Chi sogna non è un allucinato né un ansioso che fatica a dormire (capita a tutti). È una persona che dentro una storia a volte normale, altre volte più complessa e difficile, vede qualcosa. Il verbo tipico che introduce il sogno è l’ebraico halam, che in genere è seguito da wehinneh (“ed ecco” (Gn 28,12; 37,7.9; 40,9.16; 41,1.217.18), come se il sogno facesse davvero vedere ciò che da sveglio le persone non avrebbero visto. Così avvenne a Giuseppe, come pure a Daniele l’interprete dei sogni del re di Babilonia Nabucodonosor. La Parola di Dio entra cioè nella storia attraverso uomini che ne svelano il segreto perché chi riceve il sogno sappia che contiene una visione del futuro e che essa avverrà. È la forza della Parola di Dio, non è nulla di magico né di miracolistico. Se mai il miracolo è questo: se essa viene compresa, aiuta ad affrontare il futuro e a prevenire gli eventi preparando le risposte nella storia. Una delle difficoltà del nostro tempo riguarda proprio la scarsa capacità e saggezza di prevenire, e quindi di capire in anticipo quanto potrebbe accadere, e di conseguenza di essere pronti a trovare le risposte adatte. È invalsa una dannosa abitudine: agire a seguito delle emergenze. A volte le conseguenze devastanti di alcuni fenomeni climatici si sarebbero potuti evitare se noi fossimo stati più responsabili e attenti a quanto si sarebbe potuto fare per evitarli. Oggi abbiamo a disposizione un tale progresso scientifico che solo la scarsa oculatezza ci impedisce di capire le conseguenze delle scelte degli esseri umani. La Parola di Dio, se ascoltata, rende possibile guardare oltre la superficie degli eventi e quindi capire i sommovimenti sotterranei che muovono la storia.   

Il profeta Gioele accumuna sogni e visioni: “I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni” (3,1). In Giobbe 33,15-16 leggiamo: “Nel sogno, nella visione notturna, quando cade il torpore sugli uomini, nel sonno sul giaciglio, allora apre gli orecchi degli uomini”. Sogno e visione: Dio fa vedere ciò che pur alla luce del giorno non sappiamo vedere. Sembra quasi che Dio a volte abbia bisogno della notte per mostrare agli uomini quanto di giorno non riescono a vedere perché sono abituati a vedere la realtà sempre con lo stesso sguardo. Qualcosa di simile leggiamo in Numeri 12 a proposito di Mosé: “”Ascoltate le mie parole! Se ci sarà un vostro profeta, io, il Signore, in visione a lui mi rivelerò, in sogno parlerò con lui. Non così per il mio servo Mosè: egli è l’uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca a bocca parlo con lui, in visione e non per enigmi, ed egli contempla l’immagine del Signore” (v. 6-8). L’intimità di Dio con Mosè è del tutto particolare. Per questo egli diviene il modello dei profeti, colui con il quale Dio parla “bocca a bocca”. È significativo l’inizio di alcuni libri profetici, come ad esempio Isaia, che dice: “Visione di Isaia, figlio di Amoz, che vide su Giuda e Gerusalemme, nei giorni di Ozia, Iotam, Ezechia, re di Giuda”. Al profeta Amos Dio “fa vedere” quanto sta per avvenire (7-9). Lo stesso avviene a Geremia (“Che cosa vedi, Geremia?”, 1,11.13). E così i profeti iniziano a parlare, a comunicare quella Parola che non è solo loro, ma di Dio. Eppure, il libro di Isaia è piuttosto una raccolta di parole. Ma la Parola fa vedere quello che noi non vediamo. Ecco il segreto e la forza sapienziale e rigeneratrice della parola di Dio, che aiuta a guardare avanti, a trovare segni della presenza del Signore che non abbandona gli uomini al male.

Secondo i Salmi cosiddetti alfabetici (vedi il Salmo 119) la Parola di Dio racchiude l’alfabeto del nostro esistere con Dio nella storia e quindi ci dona la saggezza che fa comprendere e guardare avanti. Il legame tra l’oggi e il futuro rimane racchiuso nella storia di fede e di amore di Dio con il suo popolo, in quella alleanza che rimane salda nel tempo. Sogno e visione sono vie attraverso cui si rivela il mistero di Dio che entra nella storia per rendere consapevole il mondo attraverso il suo popolo e i suoi messaggeri che non si può essere prigionieri del presente, della prepotenza dell’io e dell’oggi. Il credente, che si affida a questa presenza, diventa perciò capace di essere luce che illumina il futuro e dona speranza che anche nei tempi più terribili e bui, come potevano essere quelli di Giuseppe schiavo nella prigione egiziana o di Daniele, interprete di un mondo dominato dagli imperi, il male non prevarrà, ma, come annuncia il profeta Abacuc, “il giusto vivrà per la sua fede”. Tuttavia, anche il giusto necessita di una Parola che gli solleva lo sguardo verso il futuro, perché continui a sognare incontrando il sogno di Dio sul mondo, che orienta e cambia la storia, infarcita delle miserie e della miopia umana.  Dio illumina quindi la notte di coloro che si affidano a lui, comunicando una Parola che svela nelle pieghe della storia la luce della presenza di Dio e rende chi la accoglie profeta di un mondo nuovo, una nuova creazione.  Nella notte, come la notte di Samuele, il Signore ha bisogno di uomini e donne che si assumano la responsabilità nei cambiamenti d’epoca, come erano quelli di Samuele, di indirizzare la storia verso il futuro, perché non rimanga imprigionata dal presente e dalla mancanza di speranza. Lo vediamo così bene oggi come davanti a una guerra devastante in Ucraina, non si sappia condividere il sogno di un dialogo che porti alla pace, chiusi nel più atroce pessimismo e in un senso di impossibilità e di ineluttabilità che provoca solo danni altrettanto irreversibili.  Per i credenti la Parola di Dio apre strade sconosciute, e insegna che esse vanno percorse con la pazienza e la speranza che il Signore sogna con noi.  Così avvenne agli uomini e alle donne di cui ci parla la Bibbia, e lo stesso può avvenire anche oggi a noi.

Benedetto Carucci Viterbi

Collegio Rabbinico d'Italia
 biografia

Bereshit barà Elokim et hashamim vet haaretz: In principio il Signore creò il cielo e la terra

L’occasione vuole che proprio questo Sabato, nelle sinagoghe di tutto il mondo, sia ricominciato il ciclo annuale della lettura della Torah, il Pentateuco. Abbiamo letto i capitoli che narrano la creazione del mondo: un processo progressivo di separazione ed identificazione. Abbiamo seguito le vicende della formazione dell’essere umano e la sua divisione in maschio e femmina e poi quelle che raccontano la sua caduta rispetto al progetto originario. Infine abbiamo ascoltato la storia di Caino ed Abele: un fratricidio.

Se vogliamo riflettere sulla parola di Dio che genera sogni possiamo forse dire che la primissima parte della Genesi, parola creatrice di Dio, è anche il sogno/progetto divino. È, per riprendere le parole dette ieri da illustri oratori, l’immaginazione divina del mondo ideale. Il sogno divino, però, si infrange subito a contatto con la realtà umana: Adamo ed Eva mangiano il frutto e, appena fuori dal paradiso, il conflitto porta Caino ad uccidere Abele. La deviazione rispetto all’ideale sereno e pacifico - lavorare il giardino dell’Eden e custodirlo, godendo dei suoi frutti - difficilmente potrebbe essere più profonda. La storia umana prende dunque una diversa direzione: fatica figlia della necessità, dolore per la continuità, lotta per la vita. È nella nuova cornice del mondo là fuori che si dipana, su questi parametri, l’esistenza dell’uomo. Una prospettiva tutt’altro che da sogno; piuttosto un incubo impegnativo. C’è una via per tornare al progetto iniziale immaginato da Dio? Non all’Eden, le cui porte sono chiuse e custodite, ma a ciò che avrebbe potuto/dovuto essere?
Leolam hashem devarechà nitzav bashamaim: Per l’eternità, o Signore, la tua parola è stabile nel cielo (Salmi 119).

Trama ed ordito della Torah sono lettere e parole che, insieme ai silenzi/pause, costituiscono il discorso creatore divino: la tradizione rabbinica identifica in dieci locuzioni il fondamento dell’universo. Dieci locuzioni morbide, ma’amarot, con cui Dio porta dal nulla all’essere la realtà delle cose. Dieci locuzioni che si integrano con le dieci parole delle tavole del patto, dibberot. Dieci parole dure, queste ultime, che incidono la pietra ma che possono, come accade prima della colpa del vitello d’oro, alleggerirsi e volare in cielo per tornare alla loro origine. La realtà del mondo, e la Torah che ne è il progetto, sono due libri costituiti dalla medesima materia, la parola/discorso. Nella Torah è parola scritta, destinata alla lettura ed alla comprensione, nella realtà del mondo è parola intorno a cui si rapprende la materia. Niente altro che due aspetti della stessa espressione divina, contemporaneamente udibile e visibile.

Così accadde al popolo che, ai piedi del monte Sinai,“vede le voci” (Esodo 20, 15). La parola divina, come suggerisce una ardita interpretazione di rabbi Shneur Zalman di Lyadi del verso citato in apertura - “Per l’eternità, o Signore, la tua parola è stabile nel cielo” - continua eternamente ad echeggiare in cielo, e dunque nel cuore della materia di cui è fatta la realtà. Senza questa eco costante, che rappresenta anche la continuità di una creazione che quotidianamente si rinnova, non c’è tenuta per l’universo: su queste dieci espressioni costantemente ripetute si fonda e si poggia.
Il Sogno/le storie/la storia

Il discorso divino genera dunque realtà - una realtà in continua trasformazione - dentro la quale si dipanano le storie - la Storia con la esse maiuscola? - che spesso, in particolare in Bereshit e Shemot - i libri di Genesi ed Esodo - appaiono, o sono, sogni. Il primo di questi a comparire nel testo è il sogno di Giacobbe: una scala ben piantata in terra la cui cima giunge al cielo. Sulla scala - o su Giacobbe? - salgono e scendono angeli. È la scala della storia, secondo l’esegesi midrashica, fatta di salite e discese, di domini e sottomissioni; domini, anche i più potenti, destinati necessariamente al tracollo: “Anche se tu ti innalzassi come un’aquila, anche se tu ponessi il tuo nido tra le stelle, da lì ti farò scendere, detto del Signore” (Ovadiah 1,4). Se la scala di Giacobbe è la scala della Storia, il movimento di coloro che dentro la Storia si muovono - le nazioni, l’Umanità - parte dal basso. La scala è ben piantata per terra e il movimento dal basso parte, non dall’alto. Dall’alto, al massimo, sembra provenire la risposta divina all’agire umano, non certo la definizione predeterminata di quest’ultimo: gli angeli, controintuitivamente, salgono e scendono. E nello speculare sogno/visione/esperienza che Giacobbe/ Israele ha al ritorno, la lotta con il misterioso uomo/ angelo, ancora una volta il richiamo alla terra è evidente. Il verbo combattere nel verso “e uno uomo combattè con lui fino al sorgere del sole” (Genesi 32,25) designa un combattimento in cui i contendenti vogliono atterrarsi reciprocamente.

Le questioni ed i conflitti umani sono, anche quando gli angeli intervengono, questioni terrene, materiali, concrete: è in questo piano che vanno risolte e superate. La benedizione dell’uomo/angelo, non vincitore né sconfitto, ha significato perché proviene dall’iniziale “nemico” ed è - oltre che benedizione - riconoscimento positivo di una assoluta alterità. È forse questo il senso del “doppio sogno” di Giacobbe: lo sforzo dell’incontro - che può anche prevedere lo scontro - deve tendere al riconoscimento dell’altro ed alla benedizione che questa alterità rappresenta per ciascuno. Se l’uomo/ umanità, come Giacobbe, è anche protagonista di un sogno/evento narrato dal discorso divino, è le sua umana interpretazione che rende il senso dell’esistenza.
Il Sogno e l’interpretazione. “Tutti i sogni seguono la bocca” (Talmud babilonese, Berachot 55b).

Il sogno, secondo il Talmud, non sembra avere senso e significato in sé: assume quello che gli attribuisce la bocca - ancora un discorso, questa volta umano - di chi lo racconta o lo interpreta. Il bene ed il male del piano onirico sono il risultato di una interpretazione e di una verbalizzazione: il contenuto manifesto è in sé neutro e può assumere tutti i significati che il suo narratore/interprete gli associa.

Il Talmud, che come spesso accade prende l’avvio da un testo biblico, si basa sulla memoria del capo dei coppieri che, quando suggerisce al Faraone di chiamare Giuseppe per avere spiegazione dei sogni delle vacche e delle spighe, ricorda cosa era accaduto al proprio sogno. “Ed accadde che avvenne come aveva interpretato” (Genesi 41,13): è l’interpretazione a generare il senso del sogno, non il sogno a generare l’interpretazione. Se dunque il sogno, un racconto per immagini, viene all’uomo dall’alto - come le storia/la Storia nella Torah -, è però nelle mani dell’uomo renderlo significativo, realizzarlo, farlo materia e non solo evanescenza.
Il libro del mondo.

Il compito dell’uomo sembra essere ascoltare il discorso di Dio, “vedere” le Sue parole. L’ascolto può essere realizzato nella lettura dei due libri costituiti dalle parole divine: la Bibbia e la realtà. Abramo, secondo l’esegesi tradizionale, rispettava già tutta la Torah ancor prima che questa fosse data all’uomo: era in grado di leggere e vedere la parola divina nel grande libro del mondo.

La Torah ed il grande libro del mondo, letti con cuore ed attenzione, sono il sogno divino di una realtà ideale. Se ogni sogno assume il significato che chi lo verbalizza gli attribuisce, allora la strada per tornare a ciò che tutto avrebbe potuto/dovuto essere è forse semplicemente la consapevolezza che tutto dipende dall’uomo. Che gli angeli scendono dall’alto solo se salgono dal basso. Che la benedizione è, nel confronto/scontro senza vincitori né vinti, nel riconoscimento della irriducibile e positiva alterità dell’altro. Che partendo dalla lettura e dall’ascolto della realtà concreta è sempre possibile, per riprendere le parole dette ieri da Andrea Riccardi, una immaginazione alternativa che ci può ricondurre al progetto divino delle origini.

Emilce Cuda

Teologa, Segretario della Pontificia Commissione per l'America Latina, Santa Sede
 biografia

Il dialogo ecumenico e interreligioso al servizio della giustizia e della pace. Contributi di Papa Francesco ai sogni sociali.  

Innanzitutto vorrei esprimere la mia gratitudine per avermi gentilmente invitato  a questo grande Incontro internazionale  per la pace. Sono molto onorata di partecipare, in particolare,  a questo panel ecumenico e interreligioso.

Desidero  condividere con voi il sogno di giustizia sociale che Papa Francesco ci propone come garanzia di una pace globale e sostenibile, cioè la pace sociale come frutto del dialogo tra tutti i fratelli e le sorelle, figli di uno stesso Dio Padre. Proprio per questo motivo, lo farò a partire dal  dialogo ecumenico e interreligioso.

Non è questo una questione da poco se si tiene conto del contesto di crisi socio-ambientale della civiltà che stiamo attraversando (cfr. LS 139), aggravato prima dalla pandemia di Covid-19 e poi dalla guerra. Questi sono tempi di desolazione per l'umanità, ma attraverso la virtù teologica della speranza possiamo vedere che Dio "sta facendo una cosa nuova", come ci dice il profeta Isaia (Is 43,19).

Fratelli, noi credenti non siamo mossi dall'ingenuità, ma dalla grazia. Pertanto, possiamo: vedere la tragedia, discernere dalla fede e agire per la giustizia.


I lunghi e sofferti pontificati di Benedetto XV e Pio XII furono segnati rispettivamente dalla Prima e dalla Seconda Guerra Mondiale. Ora tocca a Francesco guidare i cattolici in un periodo di tribolazione per la famiglia umana. Da quando si è insediato nel 2013, il Papa ha parlato di una "terza guerra mondiale a pezzi". Egli afferma che "nel nostro mondo non ci sono più solo "pezzi" di guerra in un Paese o in un altro, ma una "guerra mondiale a pezzi", perché tutto è collegato (FT, 25 e 259). Il conflitto armato in Europa non è l'unico; in altre latitudini ci sono conflitti drammatici che durano da anni, come in Siria o ad Haiti, sono esempi dei diversi tipi di guerra a cui si riferisce il Santo Padre.

Dobbiamo anche aggiungere il dramma dei lavoratori, vittime delle varie guerre, costretti a migrare. I migranti e i rifugiati, infatti, non sono solamente  mere categorie isolate chirurgicamente dal sistema produttivo che  produce la guerra in diverse forme.  I lavoratori migranti non compaiono lì, dal nulla, solo per fare spazio alla pratica caritatevole dell' "assistenzialismo", in forma individuale e privatizzata. Al contrario, i migranti sono la conseguenza di un sistema che uccide, e la loro presenza da sola costituisce la rivendicazione della pratica caritatevole del "politico", in modo comunitario e statalizzato. I lavoratori, oggi scartati, sono trattati come migranti e rifugiati sui generis, eppure la stessa causa che li scarta è all’origine della guerra: si chiama estrattivismo.  

 

Come dice il Papa, “i martiri non sono più solo individui criminalizzati, ma "popoli martirizzati". È interessante notare che le persone non vengono martirizzate per quello che fanno, ma per quello che hanno, cioè per le ricchezze che Dio ha dato loro "perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza" (Gv 10,10).

Nel cristianesimo, il termine "martire" (che significa "testimone") è sempre stato usato per indicare coloro che hanno difeso la loro fede in Cristo fino a perdere la vita per essa (dalle persecuzioni nell'Impero Romano ai regimi totalitari del XX secolo, come ben sanno in Europa e in America Latina. Facciamo attenzione, ad esempio, quando il Papa si riferisce alla "Siria martirizzata" o all' "Ucraina martirizzata", questo è qualcosa di molto profondo.

Ma come si può fermare questa guerra?  Denunciando l'ingiustizia sociale che nasconde? Tuttavia, sembra che questo non sia gradito. Ricordiamo ciò che ci avverte il libro della Sapienza quando dice: “Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta" (Sap 2, 12).

 

Cosa possiamo fare, allora, per porre fine alla sofferenza degli innocenti, se la denuncia non è ben accolta? Francesco dice: “siate creativi”. A immagine del Padre, creatore e custode, dobbiamo essere creativi e custodi, e per questo è necessario osare sognare, come ci chiede in Cara Amazzonia. Sognare significa muoversi per "convertire la passione, azione comunitaria", come ha detto nel suo II  Discorso ai Movimenti Popolari.

Quindi, fratelli nella fede, sogniamo insieme, per fermare questa e tutte le guerre. Sogniamo con gli occhi aperti. Sogniamo con la testa, con il cuore e con le mani, come ci chiede Francesco. Ma come possiamo sognare insieme? Iniziamo decidendo di unirci.

Mi vengono in mente le parole significative di Francesco quando ha ricevuto il Premio Carlo Magno per l'unità europea, quando ha detto: " Oggi ci urge poter realizzare “coalizioni” non più solamente militari o economiche ma culturali, educative, filosofiche, religiose. Coalizioni che mettano in evidenza che, dietro molti conflitti, è spesso in gioco il potere di gruppi economici. Coalizioni capaci di difendere il popolo dall’essere utilizzato per fini impropri. Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro. " (6/05/2016). Questo è sognare con la testa, con il cuore e con le mani. Questo è il sogno sociale che può fermare questa e tante guerre. La strategia delle religioni è l'unità.

Ora, Francesco ci dice che la crisi della civiltà non può essere risolta dai soli cattolici, ma nemmeno dal solo dialogo ecumenico e interreligioso. Dobbiamo chiamare tutti i lavoratori - perché siamo tutti lavoratori a immagine di Dio, perché imitiamo la sua creatività -; dobbiamo chiamarli all'unità per costruire la cultura dell'incontro, cioè la fraternità sociale in chiave poliedrica (FT 215). Come dice Francesco nella Laudato Si', non c'è un fatalismo storico a cui dobbiamo soccombere, ma una salvezza che si dà in chiave comunitaria (LS149), perché "nessuno si salva da solo" (FT 32, 54).

 

Nella seconda delle catechesi sociali del ciclo Guarire il mondo, il Papa ha parlato di due tentazioni: l'indifferenza e l'individualismo.  Nel suo discorso per il 75° anniversario delle Nazioni Unite, ha menzionato una terza tentazione, che ha a che fare con la vita sociale: l'elitarismo.  In quell'occasione il Papa si è rivolto a un altro tipo di lavoratori: i leader mondiali, che - senza dubbio - si trovano in una posizione di vantaggio quando si tratta di prendere decisioni sulla vita e sulla morte. Ha detto loro che ogni scelta ha due strade possibili: quella che porta al rafforzamento del multilateralismo, della corresponsabilità globale, della solidarietà basata sulla giustizia e sulla realizzazione della pace e dell'unità della famiglia umana; e quella che porta all'autosufficienza, al nazionalismo, al protezionismo, all'individualismo e all'isolamento, lasciando fuori i più poveri - che oggi costituiscono più della metà della famiglia umana, anche se sono ancora chiamati "minoranze", come sottolinea il cardinale Tagle. Francesco avverte i leader che la scelta di quest'ultima strada "sarà certamente dannosa per l'intera comunità, causando autolesionismo a tutti".

Quindi, se vogliamo fermare questa guerra, non possiamo più ignorare che una simile tragedia, come dice il Santo Padre, ha come causa primaria "la negazione di tutti i diritti", perché impedisce ai popoli la libertà politica, la sovranità economica, ma anche la giustizia sociale - oltre alla drammatica aggressione all'ambiente di cui tutti i popoli hanno bisogno per sopravvivere.

Se vogliamo un vero sviluppo umano integrale per tutti, i popoli non possono essere spinti alla guerra, ma, al contrario, dice Francesco, "occorre proseguire senza stancarsi nell’impegno di evitare la guerra tra le nazioni e tra i popoli" (FT 257). Egli denuncia che "  è così che facilmente si opta per la guerra avanzando ogni tipo di scuse apparentemente umanitarie, difensive o preventive, ricorrendo anche alla manipolazione dell’informazione” e che “di  fatto, negli ultimi decenni tutte le guerre hanno preteso di avere una “giustificazione”.  la guerra viene facilmente scelta dietro ogni sorta di pretesto presumibilmente umanitario, difensivo o preventivo, ricorrendo persino alla manipolazione dell'informazione", e che " di fatto, negli ultimi decenni tutte le guerre hanno preteso di avere una “giustificazione” " (FT 258). Aggiunge addirittura che "oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta””.  (FT 258).

 

Infine, sorelle e fratelli, come dice Francesco, "ogni guerra lascia il mondo peggiore di come l'ha trovato", perché la guerra "è un fallimento della politica e dell'umanità, una resa vergognosa, una sconfitta davanti alle forze del male". E poiché è una sconfitta di fronte alle forze del male, ogni guerra è la nostra guerra, se siamo credenti. Per questo il Papa ci dice di "non rimanere in discussioni teoriche", ci chiede di "entrare in contatto con le ferite", di "toccare la carne dei feriti". La contemplazione non può essere un mero piacere estetizzante; si tratta di "contemplare tanti civili massacrati come 'danni collaterali' [di tutti i tipi di guerre, che sono sempre guerre economiche]. Sproniamoci  a discernere da soli, non cediamo il nostro giudizio sovrano ai nuovi teologi dell'opinione pubblica che ci dicono qual è la verità e da che parte sta. Non lasciamoci rubare né la speranza né la Parola. Recuperiamo la nostra condizione sovrana di teologi per interpretare la verità, come Popolo di Dio che siamo. Questa condizione di soggetti giuridici che riceviamo per grazia di Dio ci permette di discernere non quale sia la verità, ma dove sia la verità.

 

Per questo Papa Francesco ci dice: "chiediamo alle vittime", " Consideriamo la verità di queste vittime della violenza, guardiamo la realtà coi loro occhi e ascoltiamo i loro racconti col cuore aperto "; e ci assicura che "non ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la pace", perché saremo stati testimoni della verità; avremo visto, ascoltato e toccato la verità nella carne sofferente delle vittime, e quindi saremo in grado di testimoniare la verità in prima persona (cfr. FT 261), senza bisogno dell'interpretazione dei falsi profeti.

Secondo Francesco, "per rendere possibile lo sviluppo di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale, è necessaria la migliore politica, posta al servizio del vero bene comune" (FT 154). La politica migliore è la politica incarnata, cioè "popolare", quella che opta preferenzialmente "con" il popolo-povero-lavoratore-svantaggiato-migrante. Perché questa è la politica migliore? Perché si mette in moto per: trasformare la passione in azione comunitaria; istituzionalizzare la giustizia sociale come "principio guida dell'economia" e garante della pace (cfr. FT 157, 164). Come diceva Pio XI, " Perciò è necessario che alla giustizia sociale si ispirino le istituzioni dei popoli, anzi di tutta la vita della società; e più ancora è necessario che questa giustizia sia davvero efficace, ossia costituisca un ordine giuridico e sociale a cui l'economia tutta si conformi. " (Quadragesimo Anno n. 89).

 

Proprio per questo motivo, il contrario della guerra è l' “amore politico". Nel mondo si ripete  "Peace and love", ma di che tipo di amore stiamo parlando? Quale tipo di amore può garantire questa pace? L'amore sociale, secondo Francesco. L'amore o la carità è "accompagnare una persona che soffre, ma la carità è anche tutto ciò che si fa, anche senza un contatto diretto con quella persona, per cambiare le condizioni sociali che causano la sua sofferenza". Questo è l'amore politico, ed è qualcosa di molto diverso dall'assistenzialismo delle ONG; quest'ultimo è la privatizzazione dell'amore. L'amore politico è pubblico, è la cura del popolo, dal popolo e per il popolo, che siamo tutti noi. Un popolo che è una comunità organizzata come uno Stato a tutti i livelli, in modo sussidiario, che si mobilita per l'istituzionalizzazione dei diritti sociali e ambientali, controllando che i suoi governi non cadano nella corruzione o nel totalitarismo. La carità come amore politico si manifesta sotto forma di leggi e politiche pubbliche che garantiscano: l'accesso universale ai beni comuni creati e sviluppati tecnologicamente; e anche l'accesso di tutti i settori sociali ai processi decisionali sui modi di produzione, di consumo e di reinvestimento delle ricchezze che Dio ci ha dato perché tutti abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza (Gv 10,10). Il contrario è la guerra in tutte le sue forme.

Se mi chiedono come fermare questa e tante guerre, vi dirò: con la giustizia sociale, unica garanzia di una pace sostenibile. Non si tratta di procurare cibo alle  vittime, ma di creare un lavoro dignitoso, e il sogno sociale è la dinamo che accende la macchina della creatività per realizzarlo.

Nella prospettiva di Francesco, basata sulla "dottrina morale cattolica, seguendo l'insegnamento di San Tommaso d'Aquino", questo amore politico deve tradursi in "atti della carità che spingono a creare istituzioni più sane, ordinamenti più giusti, strutture più solidali”. (FT 186). Fratelli, dove c'è commercio equo e lavoro dignitoso, non ci sono guerre né rivoluzioni; questa è una costante della storia.

Riprendendo e sviluppando quanto affermato da Giovanni XXIII nella Pacem in Terris e da Benedetto XVI nella Caritas in veritate, Francesco spiega che  il  secolo XXI «assiste a una perdita di potere degli Stati nazionali, soprattutto perché la dimensione economico-finanziaria, con caratteri transnazionali, tende a predominare sulla politica”. Nel  XXI secolo stiamo assistendo a uno "scenario di indebolimento del potere degli Stati nazionali, soprattutto perché la dimensione economico-finanziaria, con le sue caratteristiche transnazionali, tende a predominare sulla dimensione politica". Questa situazione, secondo Francesco, richiede l'urgente necessità dello "sviluppo di istituzioni internazionali più forti ed efficacemente organizzate" (FT 172); e chiede una riforma "sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale, affinché si possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni" (FT 172-173).

 

Nel 60° anniversario dell'apertura del Concilio Vaticano II, ritengo pertinente ricordare le linee guida che furono date per il dialogo ecumenico e interreligioso, per cercare insieme le soluzioni creative per fermare questa e tutte le guerre. Abbiamo già pregato insieme durante gli incontri di preghiera per la pace nel mondo. Ora, Papa Francesco ci invita a sognare insieme: con la testa, con il cuore e con le mani. Nel 2016, Francesco ha parlato del "paganesimo dell'indifferenza".  Per questo credo che il sogno debba essere sociale. Sogniamo come creare un lavoro dignitoso per i nativi e i migranti, per i lavoratori, gli agricoltori, gli assistenti e gli imprenditori. Sì, dobbiamo anche creare un lavoro dignitoso per gli imprenditori, perché l’estrattivismo della ricchezza e dei profitti, la vendita illegale di armi, la manipolazione della scienza, l'evasione fiscale, la fuga di valuta estera e il traffico di esseri umani: è indegno. Il lavoro dignitoso è il primo organizzatore sociale, il primo fattore di stabilizzazione.

Secondo Francesco, le religioni sono "al servizio della fraternità nel mondo", perché, essendo tutti figli dello stesso Padre, siamo tutti fratelli e sorelle nella carne (TF Cap. 8).  Così come all'inizio parlava di popoli martirizzati, l'attuale persecuzione dei cristiani porta Francesco a parlare di "ecumenismo del sangue". Infatti, di fronte al terrorismo, la fede in Gesù è vista come una minaccia, sia che gli individui, le famiglie e le comunità siano cattolici, protestanti, ortodossi o pentecostali. Il terrorismo non fa quelle distinzioni che spesso sorgono nelle nostre comunità religiose a causa dell’incapacità  di comprendere che la politica è la più alta forma di carità.  In America Latina, il terrorismo di Stato non faceva differenza  tra missionari e militanti, li metteva entrambi nelle stesse fosse comuni; e oggi le mafie della droga - la guerra nel nostro continente - ripetono questa pratica di massa senza distinzioni.

 

Sogniamo insieme, perché: o ci uniamo o affondiamo. Francesco ha compiuto gesti di unità: la richiesta di perdono ai valdesi; l'incontro con il patriarca Kirill a Cuba; la commemorazione del 500° anniversario della Riforma protestante. Durante il  recente 7° Congresso dei leader delle religioni mondiali e tradizionali in Kazakistan, il Papa ha osservato:

(I) Che "i credenti [...] oltre a sensibilizzare sulla nostra fragilità e responsabilità, i credenti nel post-pandemia sono chiamati alla cura: a prendersi cura dell’umanità in tutte le sue dimensioni, diventando artigiani di comunione

(II) Si chiede "come intraprendere una missione così ardua? Da dove iniziare?" E risponde: "Dall’ascolto dei più deboli, dal dare voce ai più fragili", perché "Fino a quando continueranno a imperversare disparità e ingiustizie, non potranno cessare virus peggiori del Covid:".

(II) Egli afferma che la seconda sfida globale che interpella in modo particolare i credenti è "la sfida della pace"; e che "è necessaria una scossa" che "deve venire da noi". (III) Chiede: come possiamo noi, che ci professiamo credenti, permettere che [la vita umana] venga distrutta? E come possiamo pensare che gli uomini del nostro tempo [...] siano motivati a impegnarsi in un dialogo rispettoso e responsabile se le grandi religioni, che costituiscono l'anima di tante culture e tradizioni, non si impegnano attivamente per la pace?

(IV) Egli aggiunge che "non ci sarà pace [...] senza una giustizia che assicuri equità e promozione per tutti [...], senza che i popoli si rivolgano ad altri popoli. Non ci sarà pace finché gli altri saranno se stessi e non faranno parte di un noi. Non ci sarà pace fino a quando le alleanze saranno contro gli altri, perché le alleanze contro gli altri non fanno altro che aumentare le divisioni".

(V) Sottolinea  che "la Chiesa cattolica non si stanca mai di proclamare l'inviolabile dignità di ogni persona, creata "a immagine di Dio"".

Eravamo nella carne: sogniamo insieme un sogno sociale, perché abbiamo la forza soprannaturale della speranza che, come dice San Paolo: "dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia" (Rm 5,20).

Daniele Garrone

Presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia
 biografia

Non c’è nulla che ci faccia sognare nei tempi che viviamo. Abbiamo però le Scritture e, in esse, la traccia dei sogni che la parola di Dio ha suscitato, contro ogni evidenza.

Vi propongo perciò alcuni pensieri a partire da due testi.

Il primo è la conclusione di un lungo oracolo nel libro di Isaia, al capitolo 19.

Il culmine è costituito dai versetti 23-25 che ora vi leggo:

23     In quel giorno, ci sarà una strada dall’Egitto in Assiria
         e l’Assiria andrà in Egitto e l’Egitto in Assiria
         e l’Egitto servirà l’Assiria / e l’Egitto servirà [l’unico Dio] con l’Assiria[1].

Qui si possono dare due traduzioni diverse, la maggior parte degli studiosi optano oggi per la seconda.

24     In quel giorno, Israele sarà terzo con l’Egitto e l’Assiria,
         benedizione in mezzo alla terra,

25     che il Signore delle schiere ha benedetto dicendo:
         “benedetto l’Egitto, mio popolo,
         l’Assiria, opera delle mie mani[2]
         e Israele, mia eredità.”

(traduzione di DG)

E’ una strada che c’è sempre stata, anzi ce n’erano più di una, ma non è mai stata percorsa nel modo che dice Isaia: è servita per movimenti di truppe delle grandi potenze di allora, dall’Egitto alla Mesopotamia, dalla Mesopotamia all’Egitto non per benevoli scambi tra popoli pacificati e affratellati; oppure è stata sbarrata dai confini eretti dagli stati che si sono succeduti.

L’arditezza della visione di Isaia risalta anche se consideriamo il contesto: un annuncio di giudizio contro l’Egitto (vv. 1-15), viene sviluppato con cinque precisazioni successive (le ultime due sono il nostro testo), tutte introdotte dalla formula “in quel giorno”.

Il succedersi delle precisazioni su “quel giorno” si ferma solo si scopre che il giudizio non è l’ultima parola di Dio. Il succedersi delle precisazioni su “quel giorno” si arresta solo quando il profeta vede la strada che ancora non c’è, solo quando si può dire l’inaudito, cioè che l’Egitto, l’Assiria e Israele saranno uniti davanti all’unico Dio. Questa visione viene così interpretare, correggere o addirittura a superare altre parole sull’Egitto o “le nazioni”.

 

La nostra visione è straordinaria  perché parlando di Egitto e di Assiria si parla di grandi potenze, già nemiche tra loro e di Israele, che ora diventano alleate. L’inimicizia lascia il posto non solo al buon vicinato, ma alla relazione benefica per tutti. E’ uno sconvolgimento della geopolitica (di allora e di oggi) che è qui annunciato.

Ma non basta. L’Egitto e l’Assiria ricevono  “titoli” fino a quel momento riservati solo ad Israele: l’Egitto diventa - dice Dio - “mio popolo” e l’Assiria “opera delle mie mani”. Israele è “terzo” inter pares tra questi popoli, ma conserva la sua peculiarità: “mia eredità”. Anzi, nella visione dei tre popoli pacificati e affratellati davanti a Dio sembra compiersi la promessa di Dio ad Abramo “in te saranno benedette tutte le famiglie della terra.” (Gen 12,3)»

 

La strada che non abbiamo ancora visto, la strada di cui non soltanto il mondo intero, a tutte le latitudini, ha più urgentemente bisogno, è la strada che Dio sa e vuole costruire. Dio costruisce le strade di cui abbiamo più bisogno, quelle che noi non solo non sappiamo costruire, ma quelle che non osiamo neppure sognare o quelle di cui noi chiudiamo i cantieri o di cui facciamo saltare in aria i ponti. Se prendiamo sul serio queste parole della Bibbia, il vero realismo è quello che si orienta alle visioni della parola di Dio, che comincia non da quello che c’è, ma da ciò che Dio ha in serbo per l’umanità.

Il secondo testo parla di chi è arrivato a sognare. Leggo il Salmo 126.

1 Canto delle salite.
Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.

         Dell’espressione “ristabilire la sorte”, qui e al v. 4, potete trovare altre traduzioni, ad esempio “ricondurre i prigionieri”.

2 Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.
Allora si diceva tra le genti:
»Il Signore ha fatto grandi cose per loro».

3 Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia.

4 Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.

5 Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.

6 Nell'andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
portando i suoi covoni.

(traduzione CEI 2008)

 

Il ricordo sfocia in gioia per quelli che avevano perduto ogni speranza: il tempio distrutto, la nazione sottomessa, molti in esilio. Ma ora il tempio è ricostruito, si può persino tornarvi in pellegrinaggio, e quello che abbiamo sentito è uno dei canti dei pellegrini che vi fanno ritorno pieni di gratitudine. E di stupore. Sembrava un sogno irrealizzabile; ora, vedendolo compiuto, si è come trasognati. Si può tornare a sorridere, si può persino parlarne e cantarne: “la nostra lingua si riempì di gioia”. La nuova realtà non passa inosservata neppure tra le nazioni, tutti lo vedono: “Dio ha fatto grandi cose per loro.” Tutto questo gravita intorno al ricordo del passato. Il presente sembra soltanto luminoso. Mi vengono in mente immagini, che tutti abbiamo visto, della gioia alla fine del secondo conflitto mondiale.

Eppure c’è una tensione in questa preghiera. Anzi sembra una vera e propria contraddizione: si chiede a Dio di fare ciò che si è poche riga prima descritto come già compiuto. Il Signore ha già “ristabilito la sorte di Sion”, ha già ribaltato una situazione drammatica, Eppure gli si chiede ancora “Ristabilisci la nostra sorte.” Gli si chiede di farlo impetuosamente e improvvisamente. E’ questo il senso dell’immagine dei “torrenti del Negheb”: sono uadi, gole scoscese e riarse per buona parte dell’anno; quando sull’altopiano arriva la stagione delle piogge, si riempiono all’improvviso di masse d’acque vorticose, che tutto travolgono.

Sul piano storico, la tensione si lascia spiegare. Il peggio è passato, ma i problemi non sono finiti. Quella che può sembrare una contraddizione, è in realtà tipico del modo biblico di parlare di Dio. Tra il “già” delle “grandi cose” che Dio ha già fatto e l’attesa, la speranza e anche la supplica che “ancora” faccia “cose grandi” si crea un “campo di tensione”, ed è in quel campo di tensione che si snoda il cammino della fede, che è fatto di memoria e di attesa, di riconoscenza e di speranza, di gratitudine e di supplica.

In questa tensione, se sappiamo serbare la memoria di ciò che Dio ha compiuto e la visione di ci ciò che è promesso, si apre lo spazio della speranza e dell’azione responsabile. E’ tanto più importante per noi oggi, che siamo schiacciati da una istantaneità senza memoria e senza visione, senza storia e senza progetto.

[1] Questa seconda interpretazione è seguita da molti commentatori (B. Duhm; G. Fohrer; O. Kaiser; H. Wildberger; J. Blenkinsopp). Cfr. la versione CEI 2008 “gli Egiziani renderanno culto insieme con gli Assiri.”

[2] “opera delle mie mani” cfr. Is 29,23; 60,21.



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