Una via purifica una illumina una conduce a Dio (San.G.PaoloII)

«“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». Gesu'

 
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FORUM 5 - LA GUERRA SFIDA IL FUTURO DELL’EUROPA

Ultimo Aggiornamento: 15/09/2023 20:58
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15/09/2023 20:57

La Caduta del Muro di Berlino ha fatto sperare il mondo e ha accelerato la strada per la formazione di una Europa unita, per una Unione come grande attore mondiale di stabilità e pace. Le guerre non sono scomparse, ma si sono moltiplicate e la guerra in Ucraina, da sola, rischia di rompere in maniera non occasionale la globalizzazione, la cooperazione tra i paesi e i popoli, gli stili di vita, portando le sue conseguenze terribili in larga parte del pianeta ma anche tra gli europei. Dalla capacità di favorire dialogo e vie di pace anche in tempo di guerra dipende molto del futuro dell’Europa e del suo ruolo nel mondo.





Agostino Giovagnoli

Storico, Comunità di Sant’Egidio, Italia
 biografia

L'Europa è sfidata dalla guerra. Ed è sfidata nelle sue stesse fondamenta. l'Europa, più precisamente l'Unione europea, è infatti una costruzione di pace. E’ nata da una volontà di pace dopo millenni, come è stato ricordato ieri, di guerre di tutti i tipi: politiche, religiose, sociali, civili.... E ha anche un obiettivo di pace: preservare la pace al suo interno. 

(Oggi poi appare sempre più chiaro che per preservare la pace al suo interno, l'Unione europea non può disinteressarsi della pace nel mondo, come ha detto ieri il presidente Mattarella. Lo ha fatto troppe volte, ad esempio nel caso della Siria o di tante guerre in Africa. La carenza di questo impegno ha fatto sì che la guerra arrivasse ai suoi confini, anzi – per certi versi - entrasse anche al suo interno, persino nelle sue fibre più profonde). 

Per essere una costruzione di pace, l’Unione Europea ha avuto bisogno e ha anche oggi bisogno di un’“immaginazione alternativa”, come ha detto ieri Andrea Riccardi. E’ grazie a tale immaginazione che la nascente Comunità europea ha saputo trasformare armi di guerra in strumenti di pace. Dice il profeta Isaia: “Spezzeranno le loro spade per farne aratri, trasformeranno le loro lance in falci. Una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione” (Isaia  2, 4). Nel 1950 è nata la Comunità europea per il carbone e l’acciaio, per condividere - in particolare tra Francia e Germania - il carbone e l’acciaio, allora fondamentali per la guerra. In un senso ancora più profondo, le lance sono state trasformate in falci trasformando il principio stesso che ispira ogni guerra - la sovranità - in uno strumento per combattere la guerra: condividendo liberamente quote di sovranità, i diversi paesi europei hanno superato senza sopprimerla la sovranità degli stati nazionali e l’hanno svuotata della carica di aggressività che è alla sua base. E’ questa la chiave di tutti i passaggi che hanno segnato il processo di integrazione europeo dal 1950 ad oggi e che ha garantito all’Europa settantasette anni di pace, un record senza precedenti. 

Oggi la guerra minaccia l’Europa anche perché minaccia l’immaginazione alternativa che è alla base della costruzione europea. La guerra, infatti, è banale: non consiste solo in una lotta sul terreno ma è anche una forma di pensiero unico. Con la guerra, la sovranità torna ad essere semplice sovranità e non può più essere usata per il suo superamento. Con la guerra, le risorse economiche devono essere utilizzate per combattere, quelle culturali per la propaganda, quelle sociali per dividere il mondo in amici e nemici. 

L’”immaginazione alternativa” viene prosciugata, spesso inibita, talvolta azzerata. Se in tempi di pace i problemi costituiscono sempre opportunità oltre che difficoltà, in guerra tutti i problemi sembrano senza soluzione. E’ possibile sostenere chi è aggredito e insieme parlare con l’aggressore? E’ possibile invocare la pace senza che qualcuno cerchi di trarne vantaggio? E’ possibile collaborare con gli altri paesi del mondo per indurre i contendenti alla pace senza rinunciare ai miei interessi negli equilibri mondiali? No, non è possibile risponde il pensiero unico della guerra. Invece è possibile conciliare queste e altre contraddizioni, immaginando ad esempio – come ha detto ieri il presidente Macron -  una “pace impura” svincolata dai tanti miti di “purezza” che conducono all’impotenza o, peggio, alla divisione, all’esclusione, alla violenza. 

Senza immaginazione alternativa, c’è il rischio della guerra infinita, di cui ha parlato ieri il Presidente Mattarella. La guerra – in teoria – comincia sempre per la pace, si propone uno sbocco di pace, quello più favorevole ai propri interessi. Ma in guerra tutti i calcoli e tutte le previsioni vengono sconvolti e così la pace può non arrivare. O, in ogni caso, arriva troppo tardi: ogni giorno di guerra è un giorno sottratto alla pace, è un giorno di morte e di devastazione, ogni giorno diventiamo peggiori a causa della guerra, come ha detto ieri il card. Zuppi. Come diceva lo storico romano Tacito: Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant, "dove fanno il deserto, lo chiamano pace". Tanti anni fa si cantava una canzone che diceva: “Fanno il deserto e lo chiaman pace”.  

Questo, perciò, è il tempo dell’Europa, il tempo della più grande invenzione politico-istituzionale di cui oggi il mondo disponga,  fondata sull’ “immaginazione alternativa” che trasforma le armi della guerra in strumenti di pace. E’ anche il tempo di tutto ciò che alimenta tale immaginazione alternativa. E’ perciò il tempo delle religioni, che sono “alternative” per definizione: alternative ad un mondo senza valori, senza senso della dignità dell’uomo e della donna, appiattito solo sul presente, realista contro ogni senso vero della realtà che è sempre più grande delle nostre consapevolezze. 

Non sempre gli uomini e le donne credenti sono all’altezza del patrimonio trasmesso dalle fedi in cui credono. Anzi spesso questi credenti si trasformano in artefici di guerra. O, più semplicemente, in uomini e donne banali, acquiescenti davanti al pensiero unico della guerra e non più alternativi ma conformisti.  

In questi giorni, stiamo cercando di svegliarci dal torpore emotivo e intellettuale indotto dalla guerra. E ai nostri relatori chiediamo di aiutarci in questo risveglio, parlando dell’ Europa non come vittima della guerra ma come alternativa alla guerra. 

Jean-Dominique Durand

Storico, Presidente dell'Amicizia Ebraicop Cristiana di Francia
 biografia

L'11 aprile 1963, Papa Giovanni XXIII pubblicò una delle encicliche più importanti del XX secolo, la Pacem in terris. Considerava la guerra "irrazionale" (alienum est a ratione bellum). 

Parlando di irrazionalità, Giovanni XXIII tendeva ad abbandonare i criteri della "guerra giusta", a moralizzare la guerra. Inoltre, l'espressione "guerra giusta" è assente dal testo. La guerra diveniva impensabile, espressione per eccellenza del Male. Papa Francesco ha parlato di assurdità" il 2 ottobre.

Giovanni XXIII, come Francesco oggi, si preoccupò di definire le condizioni per la pace, basata sui diritti umani, sullo sviluppo e su una certa idea di relazioni internazionali, relazioni costruite su una "comunità mondiale".

L'enciclica, nata dalla crisi di Cuba dell'ottobre 1962, in cui Giovanni XXIII ebbe un ruolo decisivo, ha proseguito il suo cammino attraverso il Concilio Vaticano II per giungere alla Gaudium et Spes. La Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo moderno, ha denunciato la disumanità della guerra, pur riconoscendo il diritto all'autodifesa. Ma essa invitava a "riconsiderare la guerra in uno spirito completamente nuovo", tenendo conto delle nuove capacità di distruzione:

"Ogni atto di guerra che tende indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni con i loro abitanti è un crimine contro Dio e contro l'uomo stesso" che deve essere condannato con fermezza e senza esitazioni". (§80)

Il Concilio ha denunciato la corsa agli armamenti come "una piaga estremamente grave per l'umanità" e ha invocato "l'assoluta proscrizione della guerra".

Il magistero pontificio non ha cessato in seguito di ribadire questa posizione e di affermare con forza la volontà di pace, in particolare Paolo VI nel suo discorso all'ONU del 4 ottobre 1964. 

La condanna della guerra ha assunto una nuova radicalità con Giovanni Paolo II: per lui la guerra è un'"avventura senza ritorno", frutto della rivolta di Satana contro Dio. 

Papa Francesco segue la stessa linea denunciando la guerra e affermando che solo la pace è santa. A proposito della guerra in Ucraina, ha denunciato la guerra come un atto "sacrilego", che causa una "ferita terribile e inconcepibile all'umanità".

Più di ogni altra, una guerra che coinvolga le religioni è inammissibile. Nessuna guerra può essere considerata santa. Al contrario, le religioni devono svolgere un ruolo di primo piano in pace come in guerra. Per questo motivo il tema della guerra è molto presente negli Incontri interreligiosi nello Spirito di Assisi.

Sappiamo che la guerra che si sta svolgendo attualmente in Europa è indiscutibilmente una guerra imperialista di conquista da parte di una grande potenza nucleare, la Russia, contro una nazione molto più piccola. Ma essa sta anche trascinando nella sua scia,  le chiese sedotte dal nazionalismo.

Vediamo di nuovo, come tra il 1914 e il 1918, religiosi che benedicono cannoni e fucili e incoraggiano i soldati ad andare in battaglia.

Come possiamo rendere attuale la formula del Patriarca Atenagora, "Chiese sorelle, popoli fratelli"? Quando le chiese sono in comunione, le persone vivono in pace.

L'Europa ha dimenticato il suo passato? Eppure, Papa Benedetto XV non aveva smesso di denunciare la guerra come "un'inutile strage” e Pio XII come "abominio".

L'Europa forse dimentica i milioni di morti civili e militari, e il crimine assoluto commesso contro gli ebrei con l'attuazione sistematica di un genocidio che ha colpito sei milioni di persone di ogni età e condizione? L'Europa dimentica il suo crollo nel 1919, dimentica la spaventosa miseria in cui si è trovata nel 1945, quell' "anno zero" per molti Paesi, come ha dimostrato il grande regista italiano Roberto 

Rossellini? Perché, come dice spesso Andrea Riccardi, la guerra è la madre di ogni povertà. Questo è visibile in ogni territorio del mondo in cui si svolge un conflitto armato, soprattutto in Africa, e oggi in Europa.

 

I cristiani non dimenticano il comandamento di Gesù di ricorrere sempre all'incontro e al dialogo? “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio" (Mt 5,9). L'azione umanitaria non basta: dobbiamo dialogare con i signori della guerra, prevenire per quanto possibile le tensioni, intervenire nel conflitto con la mediazione. Come dice Francesco nell'enciclica Fratelli tutti: "Tra l'indifferenza egoistica e la protesta violenta, c'è sempre un'opzione: il dialogo" (n. 199). Il Magistero pontificio sottolinea le cause morali ed economiche della guerra: odio, lotta di classe, avidità, cinismo, divinizzazione dello Stato, nazionalismo oltraggioso, egoismo collettivo e individuale, disprezzo per la giustizia. Esso oppone la forza morale del diritto, la richiesta di costruire istituzioni internazionali di mediazione e costrizione per evitare i conflitti. Per Sant'Egidio, la battaglia per la pace è la madre di tutte le battaglie. 

Andrea Riccardi ha scritto in uno dei suoi libri più importanti, La pace preventiva, che "la pace è il grande problema del nostro tempo". Lo ha scritto nel 2004. Sì, la pace è più che mai in pericolo. Ogni anno, quando riceve gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, il Papa stila una lista di Paesi devastati da conflitti. L'elenco continua a crescere. Dobbiamo perdere la speranza o continuare a credere nella profezia di Isaia: "Spezzeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in falci. Una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione e non impareranno più la guerra" (2:4). 

L'Europa è in cattive acque, sta tornando ai suoi vecchi demoni, al nazionalismo, al ripiegamento, all'odio, all'antisemitismo di nuovo spudoratamente presente nella società. L'immagine degli arcipelaghi che si allontanano l'uno dall'altro, applicata alla Francia dal politologo Jérôme Fourquet, può essere ripresa per l'Europa. Eppure, l'Europa esiste, fondata nel 1950 sulle rovine di un'altra terribile guerra da visionari statisti cristiani che sapevano che solo politiche comuni avrebbero impedito il ritorno del peggio. Questa Europa umanista, che ha già superato molte crisi, sta affrontando una crisi esistenziale. Ma la speranza c'è ancora, la "piccola speranza" come diceva Charles Péguy, che sostiene il necessario impegno di tutti gli uomini di buona volontà.

Christian Krieger

Presidente della Conferenza delle Chiese Europee (CEC), Francia
 biografia

Ringrazio Sant'Egidio per il gentile invito a partecipare a questo incontro internazionale Il grido della pace. È un onore per me partecipare a questa tavola rotonda.   

Le molteplici conseguenze della guerra in Ucraina, che sta destabilizzando profondamente l'economia globalizzata, mettono in discussione non solo il futuro dell'Europa, ma il mondo intero. La scarsità di fonti energetiche sta dando luogo a speculazioni che producono aumenti irrazionali dei costi dell'energia. L'incertezza sulla capacità del granaio d'Europa di garantire la sua produzione destabilizza la catena alimentare in molti luoghi e alimenta la spirale dell'inflazione. La guerra non solo minaccia il futuro dell'Europa, ma ha un impatto sulla vita quotidiana delle persone ovunque nel mondo. Mette in discussione il presente, soprattutto per le popolazioni più vulnerabili. 

Per quanto riguarda il tema della nostra tavola rotonda, l'impatto che questa tragica ricomparsa della guerra sul suolo europeo avrà sul futuro del continente: l'Unione europea è l'incarnazione di un progetto per la creazione di uno spazio di pace e libertà, fondato sui valori dello Stato di diritto, della solidarietà e della cooperazione. Certamente la solidarietà europea è messa a dura prova dalle conseguenze di questa guerra. Alcuni Stati membri fanno resistenza di fronte alle politiche messe in atto per sanzionare la Federazione Russa. Alcuni governi nutrono sentimenti pro-Putin; altri vedono in questa situazione un'opportunità politica per far valere le proprie richieste . Attualmente, di fronte alla scarsità di energia, la solidarietà tra gli Stati membri, soprattutto quelli altamente dipendenti dai combustibili fossili russi, non è una parola vuota. Realizzare una solidarietà energetica quest'inverno sarà una vera sfida. A mio parere, già a partire dal mese di febbraio l'Unione europea si è mostrata all'altezza della posta in gioco. È uno dei principali attori al centro di questo conflitto, con le successive ondate di sanzioni, la concessione di uno status specifico ai rifugiati ucraini, la solidarietà con l'Ucraina, ecc. Pertanto, ritengo che il cuore della sfida per il futuro dell'Europa sia altrove. Si tratta di un kairos che deve essere colto dall'Unione Europea e dai suoi Stati membri, ma anche dalle Chiese. Cercherò di illustrarlo in tre punti. 

 

I. Questa guerra ha prodotto un cambiamento di paradigma 

Con l'aggressione militare della Federazione Russa contro l'Ucraina, è cambiato il mondo. È la seconda volta in pochi mesi che assistiamo a un tale cambiamento di paradigma, in cui si passa da un mondo di prima a un mondo dopo. Proprio come la pandemia, questa guerra ha prodotto un importante cambiamento nei concetti e nelle dottrine che guidavano non solo il pensiero dei governanti, ma anche, e soprattutto, quello dei cittadini europei.

 

I segni di questo cambiamento di paradigma sono evidenti. Impostazioni ideologiche, storiche e quindi culturali, così come posizioni politiche inflessibili per decenni, sono state riviste, a volte in meno di 48 ore: il rapporto della Germania con gli armamenti, l'abbandono della neutralità bancaria in Svizzera per bloccare i beni degli oligarchi russi, l'improvvisa volontà di Svezia e Finlandia di entrare nella NATO. La neutralità non è più una posizione politica all'altezza della posta in gioco, anche la Svizzera è interessata da questo dibattito. Per molti aspetti, quindi, la pagina della Brexit è stata voltata (tranne che in Gran Bretagna!). L'Unione europea ha dimostrato la sua ragion d'essere. Gli euroscettici in Italia, in Svezia e altrove non vogliono più uscire dall'UE e nemmeno dall'euro - o almeno per il momento non menzionano più questa opzione come priorità del loro programma politico. 

Inoltre, bisogna constatare anche una rottura antropologica. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, la storia è stata scritta grazie alla predominanza di governi che rispettavano le istituzioni e il diritto internazionale e che hanno impostato le loro politiche in uno spirito di cooperazione multilaterale. La fine del multilateralismo è stata sancita dall'elezione di Donal Trump. Le relazioni geopolitiche s'inscrivono ormai nel quadro di rapporti di forza, dove alcuni Paesi, freddamente, non escludono più l'uso delle armi per raggiungere i propri fini politici. Inoltre, l'incapacità delle Nazioni Unite di agire sull'attuale conflitto in Ucraina dimostra che queste istituzioni internazionali sono state concepite per un tempo di pace e per governi che rispettino il diritto internazionale. 

Queste poche considerazioni mostrano chiaramente che la nostra situazione attuale non è fatta di qualche cambiamento o adattamento congiunturale, ma di un vero e proprio cambio di paradigma che vede scuotere le fondamenta concettuali che hanno governato il nostro mondo negli ultimi decenni. 

 

II.   Un kairos per il futuro del progetto europeo

Cosa significa questo cambiamento di paradigma per il futuro del progetto europeo? Per me questo cambiamento di paradigma rappresenta un'opportunità, un kairos - per usare un linguaggio biblico – tempo opportuno per continuare e approfondire il progetto europeo. Per due decenni, l'UE ha lottato con le forze euroscettiche, con logiche di ripiegamento che hanno ostacolato la sua capacità di evolversi per giocare il ruolo di attore internazionale che ci si aspettava. Durante la pandemia, e ora con l'aggressione militare in Ucraina, l'Unione europea ha dimostrato la sua capacità di resilienza. La guerra ha permesso ai cittadini europei di ricongiungersi con la narrazione dei fondatori dell'UE, una narrazione con la quale eravamo culturalmente in contrasto dall'inizio del XXI secolo. La ragion d'essere dell'UE è ormai evidente.

Per l'UE si apre una finestra di opportunità per rafforzare e ampliare il suo progetto. L'UE si è costituita secondo un modello di associazione ma è giunto il momento di passare a un modello più integrato e federativo, dotandosi così di competenze che ne rafforzino la capacità di azione, in particolare a livello internazionale. Ciò significa, in particolare, rafforzare il suo potere diplomatico e sostenerlo con i mezzi di una difesa comune.

È anche il momento di avanzare significativamente riguardo alla prospettiva di allargamento dell'UE. Non ci si può accontentare di avere Paesi che attendono nell'anticamera dell'UE per decenni. La promessa di realizzare questo progetto di creazione di uno spazio di pace e libertà deve essere perseguita e si devono compiere avanzamenti significativi. Considerando quanto i voti all'unanimità e i diritti di veto siano paralizzanti per le organizzazioni internazionali, si è aperta una finestra di opportunità per cambiare i trattati passando dal voto all'unanimità a quello a maggioranza, in particolare in materia di politica estera e politica fiscale. In questo modo si eliminerebbe uno degli ostacoli all'allargamento.

La recente prima riunione di questa nuova piattaforma di scambio e cooperazione, la Comunità politica europea, che riunisce 43 capi di Stato e di governo che rappresentano praticamente tutta l'Europa, segna questa volontà di reinventare il futuro dell'Europa. Un recente articolo di Le Monde ha lanciato un appello simile, chiedendo una terza rifondazione dell'Europa (dopo la prima alla fine della Seconda guerra mondiale e la seconda alla fine della Guerra fredda).

Concludo questo secondo punto. L'attuale guerra rappresenta più di una sfida per il futuro del progetto europeo, essa offre una finestra di opportunità, un kairos per l'allargamento e l'approfondimento di questo progetto di uno spazio di pace e libertà. 

 

III.  Le ripercussioni sul nostro approccio alla promozione della pace 

Nell'argomentazione di questa tavola rotonda si afferma che il futuro dell'Europa e il suo ruolo nel mondo dipendono in larga misura dalla capacità di promuovere il dialogo e le vie della pace, anche in tempo di guerra. Promuovere il dialogo e le vie della pace in tempo di guerra è il difficile compito che molte chiese e leader religiosi si sono assunti negli ultimi mesi. Animate e convinte dall'etica della pace che è alla base del Vangelo di Gesù Cristo, le autorità cristiane hanno cercato di creare gli spazi di dialogo o di preservare i luoghi di incontro che le vie della pace richiedono. A volte sono stati fraintesi. Il fatto che qui a Roma, durante la Via Crucis del Venerdì Santo, due donne, una russa e l'altra ucraina, abbiano portato insieme la croce ha suscitato grande emozione in Ucraina, ma anche una profonda incomprensione. 

In effetti, il cambiamento di paradigma che ho appena citato ha avuto un impatto anche sulla nostra attività di promozione della pace. Da diverse generazioni noi pensiamo e agiamo per una pace sostenibile in un contesto di pace (in assenza di conflitti armati). Cercando di lavorare sulle dimensioni cristiane della guerra in Ucraina - uso il plurale perché ci sono diverse dimensioni cristiane sullo sfondo di questo conflitto, certamente in primo luogo la posizione espressiva dell'ideologia Russkiy mir del Patriarcato di Mosca, ma anche la disputa in Ucraina tra questo stesso Patriarcato e Costantinopoli, o la questione della Chiesa greco-cattolica in Ucraina, o quella della Chiesa riformata ungherese in Transcarpazia... - mi sono trovato di fronte al fatto che ci sono diversi momenti in un conflitto e che altrettanto diverse devono essere le sottolineature nella richiesta di una pace duratura, a seconda dei momenti. 

 In primo luogo, c'è il momento del conflitto stesso; il momento della violenza delle armi che causano ferite e umiliazioni, quando l'aggressore cerca di conquistare terreno, di allargare la base del suo posizionamento. Poi c'è il momento della risoluzione del conflitto, quando tutte le parti coinvolte decidono insieme di sospendere l'uso delle armi, di interrompere la spirale della violenza e di riprendere la strada del dialogo per cercare una soluzione pacifica alle loro differenze. In terzo luogo, c'è il tempo della riconciliazione che mira a stabilire una pace duratura, il tempo in cui le spade vengono trasformate in vomeri (Michea 4:1-4). Il tempo da solo non basta a guarire i ricordi. È necessario un lavoro di riconciliazione per sanare le ferite della memoria, quelle umiliazioni che sono i germi dei conflitti di domani; un tempo per convertire gli odi e i risentimenti in rispetto per l'altro e in fratellanza, e quindi per dare vita all'etica evangelica della pace.

Nel momento attuale, quello della violenza delle armi, il lavoro per ottenere la pace deve avere come obiettivo la sospensione dell'uso delle armi e rivendicare l'esigenza di verità e giustizia, che sono i fondamenti di una pace che duri nel tempo. Finché non si compie il lavoro di verità necessario per la giustizia, l'accesso a una logica di riconciliazione, o addirittura di perdono, è fuori discussione. È per questo motivo che nel lavoro e nell'attività della Conferenza delle Chiese europee queste nozioni di verità e giustizia hanno avuto la precedenza sull'obiettivo di una pace duratura che tutti noi sottoscriviamo.

Pertanto, questa guerra non solo è una sfida per il futuro dell'Europa ma anche per il cristianesimo e le religioni, costringendoli a ripensare e approfondire il loro discorso sulla pace e la riconciliazione. 

Concludo questo terzo punto sottolineando che la nostra difesa di una pace duratura deve essere circostanziata, ma senza perdere di vista il suo scopo.

IV.   Conclusione

1) Il cambiamento paradigmatico in corso offre al progetto europeo l'opportunità di un approfondimento e un ampliamento che rinforzino le ragioni della sua realizzazione e meglio soddisfino le aspettative.

2) Le Chiese e le religioni hanno un ruolo da svolgere, soprattutto nella loro capacità di contribuire a un lavoro di riconciliazione e di guarigione delle memorie e di promuovere questo lavoro tra i Paesi e all'interno di ogni società.


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15/09/2023 20:58





Dominique Quinio


Presidente onorario delle Semaines Sociales de France
 biografia

Il titolo di questa tavola rotonda mi sembra particolarmente appropriato. Sì, la guerra in Ucraina, alle porte dell’Unione Europea, è una sfida per questa Unione, nata dagli orrori della seconda guerra mondiale e dalla volontà di alcuni uomini di buona volontà di andare verso la riconciliazione, la pace e la costruzione di un avvenire comune. Questa Europa si trova a confrontarsi con una guerra crudele, così vicina,  provocata dal presidente russo, Vladimir Putin, che rifiuta i suoi stili di vita, i suoi principi democratici e li vede come una minaccia. L'UE è un progetto di pace, riaffermato dopo la caduta del Muro di Berlino: si sperava di poter finalmente godere dei dividendi della pace. L'Europa si è quindi concentrata sul suo potenziale economico, sul mercato che rappresenta. La guerra in Ucraina è un crudele richiamo all’ordine, un invito a essere più lucidi sugli sviluppi mondiali. 

È vero che questa Europa non ha mantenuto tutte le sue promesse: non è stata in grado di mantenere viva la fiamma dei suoi inizi tra le nuove generazioni (fatta eccezione forse per coloro che sono vicini ai suoi confini e più consapevoli della loro fragilità). L'argomentazione della pace non era più sufficientemente convincente, almeno tra i giovani francesi, tanto i conflitti sembravano lontani - e questo nonostante l'irruzione del terrorismo e della sua violenza.  La sicurezza che cercavano non era contro un potenziale nemico, ma per una maggiore giustizia sociale, per la lotta alla disuguaglianza, per il benessere materiale, per una maggiore considerazione della crisi climatica. Alcuni nei nostri Paesi sono stati persino tentati di rifiutare il progetto europeo, di indirizzarsi a politiche populiste e nazionaliste. Inoltre, abbiamo assistito a fratture tra i Paesi dell'Est e dell'Ovest, incomprensioni reciproche, obiettivi diversi di fronte a sfide quali la questione dell'immigrazione o l'evoluzione dei costumi.

Le pesanti conseguenze della guerra

Conseguenze tragiche innanzitutto per gli ucraini, per gli uomini, le donne e i bambini, e per il loro territorio devastato. Ci sono crimini di guerra e la necessità di documentarli e condannarli. Ma conseguenze pesanti anche per la Russia. 

Chi sarà il vincitore? Non c'è mai una vera vittoria (come abbiamo visto con tutti i conflitti in cui si sono imbarcate le grandi potenze, gli Stati Uniti in Iraq o in Afghanistan o anche le operazioni esterne della Francia in Africa, in Mali...). E se c'è una sconfitta, i popoli e i loro leader, umiliati, vivono nel desiderio di rivalsa. Se la fine di una guerra non si accompagna ad una soluzione politica giusta e praticabile, è difficile sapere cosa emergerà da questo caos.

Anche se la crisi energetica ci costringe ad adottare comportamenti economici assolutamente necessari e in definitiva virtuosi per il pianeta, nell'immediato si verifica il ritorno alle centrali a carbone, il rilancio del nucleare... E sul territorio devastato dalla guerra, un danno ambientale notevole.

 

Il rafforzamento dell’impegno militare, necessario per aiutare l'Ucraina, è un punto di svolta. Gli stanziamenti  aumentano ovunque: + 23% per il bilancio francese, il sesto più grande del mondo, in 5 anni, per raggiungere il 2% del PIL.  Gli orientamenti strategici non sono sempre chiari e rispondono alle pressioni delle autorità militari che chiedono mezzi e dei produttori/venditori di armi. In questa guerra, ci misuriamo di nuovo anche con la minaccia delle armi nucleari. La dottrina della deterrenza, difesa durante la Guerra Fredda, non è più sufficiente; esistono armi nucleari di minore intensità ma terribilmente pericolose, così come terribili armi chimiche. Anche questa è una sfida per la Francia, unico Paese dell'Unione (ed insieme alla Gran Bretagna nell’Europa tutta) a possedere quest'arma nucleare. Ma altri Paesi sono sotto l'ombrello della NATO e ospitano queste armi sul loro territorio. In futuro, converrebbe meglio discernere le aspettative dei Paesi più vicini alla Russia e dei cosiddetti Paesi "neutrali" (Austria, Malta, Cipro, Irlanda, ecc.).

 

Qual è lo stato dei vari trattati di riduzione degli armamenti convenzionali, chimiche e nucleari? Difficile che queste domande trovino ascolto in un momento in cui si vuole aiutare un popolo minacciato nella sua sovranità, tuttavia, questa riflessione non deve fermarsi. Al contrario, quello che gli ucraini stanno vivendo così vicino a  noi dovrebbe indurci a pensare che la guerra non è mai la soluzione e che bisogna fare di tutto per evitarla. 

 

Il contesto bellico sarà in grado di imprimere un nuovo slancio all'Unione?

Sì, sono successe cose positive dall'inizio della guerra (come d'altronde in occasione della pandemia): abbastanza rapidamente, l'Unione si è riunita per decidere le sanzioni economiche contro la Russia, l'accoglienza dei rifugiati, il sostegno militare all'Ucraina, la distribuzione delle risorse di gas (anche se in Francia, per esempio, si è sentita qualche voce che deplorava il fatto che stessimo condividendo le nostre riserve quando c'era il rischio di penuria!). E questo non è stato solo affare dei politici: l'accoglienza dei rifugiati ucraini è avvenuta molto rapidamente e in condizioni ragguardevoli; alcuni Stati, come i Paesi confinanti con l'Ucraina o la Germania, si sono particolarmente mobilitati. 

La difesa e la diplomazia sono certamente prerogative nazionali, ma possiamo andare verso una diplomazia europea, verso una difesa europea? Dal 1990, l'UE ha aumentato i suoi poteri in questi settori. La crisi attuale dovrebbe renderci meno concentrati su noi stessi e sui nostri interessi, più attenti ai Paesi vicini alla Russia e all'appello degli Stati che desiderano entrare nell'Unione? L'allargamento, come sappiamo, non è facile e può richiedere del tempo, troppo per i paesi richiedenti...

È assolutamente necessario che l'Europa parli con una voce assertiva e distinta, anche rispetto a quella degli Stati Uniti; la promessa dello scudo NATO non deve portare a soffocare le differenze di approccio. Anche se si sentono sfumature nelle posizioni europee: le parole di Papa Francesco a favore di una soluzione diplomatica non sempre sono state comprese, né gli scambi telefonici del presidente francese con Vladimir Putin. Le differenze non devono spaventarci, dobbiamo imparare ad affrontarle, a discuterle per raggiungere un consenso.

Cosa ne pensano i cittadini europei? Lo scorso giugno, il think tank European Council on Foreign Relations (ECFR) ha condotto un sondaggio su 8.000 cittadini di nove Paesi dell'UE e del Regno Unito: le risposte si sono ripartite fra coloro, il 35% del panel, che volevano cercare una rapida soluzione diplomatica anche a costo di accettare concessioni (in particolare in Germania e in Italia), coloro che non volevano cedere su nulla (fra cui, non a caso, i polacchi) e coloro che oscillavano fra le due posizioni ma erano preoccupati per gli effetti della guerra sul loro Paese (energia, inflazione, ecc.). Alcuni rimproverano al loro governo di fare troppo a favore degli ucraini. "La tenuta delle democrazie europee dipenderà dalla capacità dei governi di mantenere il sostegno dell'opinione pubblica per misure potenzialmente costose", affermano gli autori dell'indagine. A lungo termine.

Questa voce particolare, distintiva dell'Europa deve promuovere l'idea del multilateralismo, che ha sofferto molto a causa della presidenza Trump negli Stati Uniti e dei blocchi al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.  Ciò solleva una questione particolare per la Francia: dovremmo orientarci verso un seggio europeo nel Consiglio di Sicurezza?  Il presidente francese ha detto che le regole devono cambiare, ma si è guardato dall'arrivare a tanto. Il nostro mondo si sta frammentando, la guerra si fa "a pezzi", come dice Papa Francesco, e a volte per "procura" in aree dove le grandi potenze non vanno, ma dove comunque giocano un ruolo importante; si affermano potenze autoritarie in Russia, Cina, Iran... I valori della democrazia o i diritti umani vengono calpestati. In questo mondo, più che mai, c'è bisogno di "un'autorità pubblica di competenza universale", secondo le parole di Papa Giovanni XXIII (Pacem in terris, 1963). L'Europa deve contribuire a questo obiettivo.

Ma perché la sua voce sia ascoltata, perché sia credibile, deve incarnare i valori che difende ed esserne degna. Questi valori sono nati in ambiente cristiano; oggi invece l'Europa è in gran parte multiculturale e questo deve essere il suo messaggio attuale: è possibile, nonostante le differenze di cultura, pensiero, religione e spiritualità, vivere insieme in pace, "tutti fratelli"

Nico Piro

Giornalista, scrittore e blogger, Italia
 biografia

Quando si parla di Europa si sente spesso citare il manifesto di Ventotene,
un testo che viene spesso piegato alle esigenze del presente, con
interpretazioni di comodo. Capita purtroppo di frequente con i precedenti
storici per questo motivo, tento di fare il possibile per non commettere, in
questa sede, lo stesso errore.
Di quel manifesto credo sia fondamentale ricordare il cardine centrale.
Leggo testualmente:
“Il problema che in primo luogo va risolto - fallendo il quale qualsiasi altro
progresso non è che apparenza - è la definitiva abolizione della divisione
dell'Europa in stati nazionali sovrani.”
Considerano il linguaggio odierno, probabilmente oggi diremmo - in sintesi -
che quello era un manifesto contro i confini.
Nella loro analisi politica e storica Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi
riconoscono che gli stati nazionali hanno avuto un effetto propulsivo - quello
di superamento dei campanilismi interni - ma aggiungono che quella spinta
si era però esaurita e quell’effetto positivo era stato intanto superato dal
pericolo che lo stesso nazionalismo aveva amplificato. A quale pericolo si
riferiscono? A quello della guerra.
Leggo testualmente:
“Risorgerebbero le gelosie nazionali e ciascuno stato di nuovo riporrebbe la
soddisfazione delle proprie esigenze solo nella forza delle armi”.
In esilio su un isolotto del Mediterraneo e nel pieno di una guerra lontana
dalla sua conclusione, chi ha scritto quel manifesto già si preparava al giorno
successivo alla fine delle ostilità, al giorno della pace e della ricostruzione.
Era questa la prospettiva degli autori - esiliati a Ventotene - secondo cui la
faglia destinata a separare conservatori dai progressisti, nel prossimo futuro,
sarebbe stata la volontà di creare un solido stato internazionale, non la sfida
per la conquista del potere nazionale.
Per cosa si è combattuto negli anni ’90 nei Balcani? Per i confini.
Per cosa si combatte oggi in Ucraina? Per i confini.
Da dove nasce la crisi delle migrazioni, quella che più profondamente ci sta
interrogando nel profondo sul valore dei nostri valori - no non è un refuso -
sul valore dei nostri valori e sulle fondamenta della nostra stessa civiltà - mi
riferisco alle migrazioni. Da dove nasce? Dai confini
E’ la riprova che chi ha scritto il manifesto di Ventotene ha avuto una visione
profonda, ha guardato ben oltre la prospettiva del proprio tempo quando tra
invasori e invasi, era più facile far prevalere la spinta a ricostruire le violate
identità nazionali piuttosto che far germinare l’idea dell’Europa unita.
E proprio l’unione europea nel suo evolversi fino ai giorni nostri è uno dei
frutti migliori del dopo guerra, ci ha impedito di ripiombare in scenari simili a
quelli dei primi due conflitti mondiali.
Oggi però quel modello sta affrontando una crisi molto forte, direi ancora più
forte perchè taciuta, nascosta alla vista come il fuoco sotto la cenere.
Di fronte alle migrazioni, l’Europa si è trasformata in una fortezza.
Di fronte alla guerra, quindi dal 24 febbraio, ha scelto di rinunciare alla sua
storica neutralità.
Prima di affrontare questo punto - il futuro dell’Europa e della pace - abbiate
però la pazienza di seguirmi nel tentativo di ricostruire il contesto in cui
stiamo ragionando, oggi, anche in questa sala.
Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, in Europa come in Italia, si è affermato
un monoblocco politico - schierato da destra a sinistra a favore del conflitto,
senza soluzione di continuità.
Si è anche imposto quello che io chiamo PUB, il Pensiero Unico Bellicista.
Una variante particolarmente aggressiva di quel pensiero unico che Ignacio
Ramonet de Le Monde Diplomatique teorizzò negli anni ’90, dopo la fine del
mondo diviso in due blocchi.
Il PUB è particolarmente aggressivo perchè non si accontenta di aver
ragione, di essere nel giusto, di essere l’unico punto di vista moralmente
accettabile. Il PUB proietta uno stigma su chiunque chieda pace, su
chiunque avanzi un dubbio, una critica all’idea che alimentare la guerra serve
a concluderla che è un po’ come dire che buttare legna in un focolare
significa spegnerlo.
Nel pensiero di Papa Francesco trovo molto interessante la ricorrente idea di
cultura dello scarto, come paradigma del pensiero dominante nelle società
ricche e consumiste. E’ un paradigma che si applica perfettamente al
dibattito in corso sulla guerra.
Dopo l’11 settembre, progressivamente, nella nostra società l’idea di guerra
è stato assimilato, ha perso eccezionalità, ha sostituito la pace come stato
normale.
Cosa è diventata allora la pace? Non più uno strumento per fermare e
prevenire i conflitti ma uno scarto, un sottoprodotto della guerra. Si
combatte, si vince, poi con lo sconfitto si sigla un armistizio che pretendiamo
di chiamare pace.
Non è solo una visione moralmente sbagliata è anche totalmente fuori dalla
realtà. I conflitti post-11 settembre ci dimostrano che la vittoria è quasi
sempre irrealizzabile, tanto che durante quei conflitti la definizione di vittoria
è variata al protrarsi degli stessi per adeguarla alle mutevoli condizioni
belliche sul campo e per rispondere alla difficoltà dei governi nel continuare
ad vendere il prodotto guerra alle proprie opinioni pubbliche.
La definizione di vittoria così cambia alla bisogna, in Afghanistan se ne
abbiamo contate almeno cinque. In Ucraina non abbiamo ancora capito se
l’obiettivo del conflitto sia ritornare alla situazione del 23 febbraio 2022 o al
pre-2014. Dettagli non secondari nè nel vincolare la durata ipotetica di un
certo conflitto nè nel poterne prevedere costi umani e materiali.
Poc’anzi parlavo delle difficoltà dei governi di vendere il prodotto guerra alla
proprio opinione pubblica.
Sempre più nella cultura dei Paesi ricchi, avanza il concetto di consumo
consapevole. E’ un modo per sottrarre la barchetta sulla quale navighiamo
noi consumatori ai marosi dei messaggi pubblicitari, sempre più subdoli, e
dalle ondate di proposte d’acquisto.
Le varie autorità hanno posto in essere forme di tutela per esempio nel
campo dell’acquisto dei prodotti finanziari (di cui è più difficile valutare il
rischio per un non esperto) come nel settore dei farmaci, dove la pubblicità
spinge all’autoprescrizione.
Sulle sigarette c’è scritto che “il fumo nuoce gravemente alla salute”. Eppure
queste forme di tutela dei consumatori non esistono quando si passa dal
mercato dei beni e dei servizi a quello delle idee e di quei prodotti
immateriali, in genere, che pur costituiscono le fondamenta della convivenza
civile.
Se la pubblicità vi promette che un paio di scarpe potrà migliorare la vostra
postura ma non c’è alcuna evidenza scientifica (studi, ricerche) a sostegno di
queste affermazioni potete fare una class-action per ottenere risarcimenti.
Eppure nessuno di noi ha potuto far nulla per chiedere conto degli otto
miliardi e mezzo di euro e delle 57 vite che abbiamo sacrificato in
Afghanistan.
Un problema evidentemente marginale per la politica italiana visto che non
ricordo si sia mai svolto un dibattito parlamentare per capire cosa avevamo
fatto bene e cosa male in 20 anni di missione di pace o meglio di guerra di
pace in quel Paese.
Dopo il tragico attentato del Bataclan a Parigi, qualcuno si è assunto le
responsabilità di averci venduto (ovvero convinto a sostenere) i conflitti post
11 settembre? Di averlo fatto usando un messaggio che un avvocato dei
consumatori definirebbe ingannevole? Lo ricordate quel messaggio, quello
spot per la guerra? Bisognava andare a combattere lontano per garantirci
sicurezza vicino, cioè a casa nostra.
Basterebbe solo l’esempio della destabilizzazione dell’Iraq, trasformato in
palestra d’ardimento della jihad internazionale, e i successivi attentati in
quella che chiamiamo “casa nostra” a farci capire come quei conflitti ci sono
stati venduti sulla base di premesse sbagliate.
Siamo stati convinti sull’onda della paura, grazie all’emotività, spinti da
scelte di stomaco, non di testa. Decisioni irrazionali ed economicamente
dannose, almeno per il grosso di noi, non per i centri di profitto bellicista,
costate solo in termini di vite umane circa un milione di morti.
Il marketing della guerra è in azione dal 24 febbraio, la narrazione bellicista
non lascia spazi al dubbio, ci racconta la guerra come un fenomeno
compatto, senza ombre nè chiaroscuri.
A giorni alterni ci propone l’imminenza di una svolta che si tratti della
controffensiva ucraina, del collasso dell’esercito russo, dell’implosione
dell’economia di Mosca, del colpo di Stato al Cremlino, della rivolta degli
oligarchi, della morte di Putin per malattia.
Quella della “svolta” è una chiave narrativa che serve a spacciarci il conflitto
come una cosa certo brutta ma utile e persino efficace. A rasserenarci
mentre - sotto forma, di paure o di danno economico - la guerra bussa alle
nostre porte di casa.
Parte del marketing della guerra c’è la narrazione buoni e cattivi, la
costruzione del nemico e quindi la santificazione dell’alleato. E’ un processo
comunicativo fisiologico ad ogni conflitto al quale Papa Francesco ha
provato a sottrarsi, ritrovandosi esso stesso vittima di critiche che arrivano
da quelli che io chiamo opinionisti con l’elmetto e che ormai contro il
Pontefice usano parole che rendono roba da ragazzi la satira anticlericale di
riviste come Cuore, il Male, il Vernacoliere.
Spiegano al Papa come si fa il Papa.
Il Papa, come fa il movimento pacifista, chiede di superare il blocco del
ragionamento, di ogni ragionamento sulla guerra che si ferma a Putin cattivo
e invasore, Ucraina buona e invasa. Il Papa come il movimento pacifista
guarda alla complessità (anche questa è diventata una brutta parola in questi
mesi).
Ok c’è un buono e c’è un cattivo - provo a sintetizzare - Ok c’è un invaso e
un invasore. ma possiamo sforzarci di trovare una soluzione al conflitto?
Possiamo trovare un modo per impedire che vittime innocenti smettano di
morire?
Chiunque provi a passare a questo secondo gradino di ragionamento sulla
guerra viene accusato di essere amico del nemico, traditore della patria,
quinta colonna di quel regime con cui - eppure - politici e imprenditori italiani
non i pacifisti, fino ad ieri, andavano a braccetto
In questo contesto ragioniamo oggi di pace, attività diventata
profondamente rischiosa per la propria immagine, per la propria carriera e
persino per la propria sicurezza - questo va denunciato con forza. Ma nel
farlo dobbiamo avere lo stesso slancio nello sguardo che ebbero i confinati
di Ventotene.
La narrazione guerrafondaia, il marketing della guerra, il Pensiero Unico
Bellicista ci spingono in un tunnel, come con un binocolo abbiamo una
visione ristretta. Continuiamo a guardare al conflitto come qualcosa di
confinato in una ristretta regione d’Ucraina senza coglierne i potenziali rischi
globali (siamo arrivati persino ad accettare la minimizzazione del rischio
nuclerare), senza volerne vedere gli effetti nefasti che sta avendo sulla
globalizzazione, sui poveri di casa nostra, sui Paesi poveri del mondo e infine
sulla nostra casa comune Europea.
Dimenticando la lezione dell’Operation Cyclone, le armi americane ai
mujaheddin in Afghanistan che servirono a cacciare i sovietici ma anche a
combattere una sanguinosa guerra civili e a fare di quel Paese la base di Al
Qaeda, l’Europa ha scelto di fornire armi all’Ucraina. Per difendersi - si dice,
ma non si spiega quale sia lo scopo di tale armi e quali sia la definizione di
difesa quindi di vittoria. Se si guarda alle statistiche sulle forniture di armi
europee all’Ucraina si nota come sembrino spiccioli al confronto con i 17
miliardi di armamenti forniti dagli Usa e i notevoli esborsi del Regno Unito. In
cambio di quegli spiccioli che non fanno la differenza sul campo di battaglia,
l’Unione Europea ha rinunciato al suo ruolo di potenziale mediatore, ruolo
lasciato nelle mani di un dittatore (Erdogan) che ha invaso un altro Paese - la
Siria di cui reclama un pezzo con la scusa della sicurezza - e che tra russi e
ucraina recita più parti in commedia, con abile ambiguità.
Non è solo un errore tattico quello della dirigenza europea, è anche un
profondo errore strategico. La scelta di diventare cobelligeranti sta minando
gli equilibri dell’Unione, la sta indebolendo. Abbiamo creduto che l’unico
modo di aiutare l’Ucraina fossero le armi, fosse schierarsi nel conflitto, non
aiutare a raggiungere una soluzione negoziale.
L’Europa ha perso la sua anima ma rischia anche di perdere la sua unità,
sempre più l’asse decisionale europeo - sulla spinta della virile e morale
adesione al conflitto, e torniamo quindi alla narrazione bellicista - sempre più
si sposta verso quei Paesi di Visegrad che, messa all’angolo la filo putiniana
Ungheria, mescolano rassicurazione atlantista con conservatorismo estremo
di fatto picconando gli stessi principi d’Europa. Paesi che hanno dimostrato
nel caso migranti, grande egoismo e scarsa condivisione.
I confini, le guerre per la loro difesa, il respingimento dei migranti, la crisi non
dichiarata dell’Unione Europea. Su questo, non sulla semplificazione buoni e
cattivi, dovremmo concentrarci oggi e farlo con urgenza se si considera che
a questi fattori va aggiunto il cambiamento climatico sorgente di nuove
migrazioni e di nuovi conflitti (a cominciare da quelli per l’acqua che si
preparano in diversi punti del mondo).
Di questo dovremmo parlare ma con onestà e per farlo dovremmo
ammettere che le soluzioni micro sono cerotti, che c’è una sola risposta
macro alla crisi del nostro presente e alle sue varie declinazioni. Quella
risposta si chiama pace e dobbiamo avere la volontà di costruirla, una volta
e per sempre.

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