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Una via purifica una illumina una conduce a Dio (San.G.PaoloII)

«“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». Gesu'

 
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FORUM 3 - CHI SALVA UNA VITA SALVA IL MONDO INTERO

Ultimo Aggiornamento: 15/09/2023 20:44
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Città: CORIGLIANO CALABRO
Età: 55
Sesso: Maschile
15/09/2023 20:44



Muhammad Abdul Khabir Azad

Grande imam della moschea di Lahore, Pakistan
 biografia

Vi do il benvenuto e vi saluto tutti con la parola Pace: Assalamoalaikum

Onorevole Presidente della sessione, egregi leader e rispettabile pubblico,

Prima di tutto, sono grato al Signore dell’Universo, i cui favori hanno fatto sì che il mio impegno e le mie energie siano state d’aiuto in opere buone e sono riconoscente ai responsabili e ai leader della Comunità di Sant’Egidio di Roma, Italia. Questa bella riunione è posta sotto il titolo “E chiunque salva la vita di una persona, è come se salvasse la vita di tutti”. Sicuramente questo è segno di una grande ed onesta leadership, e saluto questa leadership.

Questo argomento è molto esauriente e in linea con l’attuale situazione e con le necessità dei tempi.

Allah Onnipotente, essendo il Creatore, dà valore a ciascuna e a tutte le anime sulla Terra ed ama incondizionatamente la propria creazione.

Allah Onnipotente dice, nel santo Corano: “Io ho creato l’uomo nella forma migliore” e, nelle parole di Maometto (pace e benedizione su di lui), Allah ama ogni essere umano settanta volte più della sua [stessa] madre.

E questo è il punto d’inizio e di fine; l’atto di amare le persone ed aiutare le persone nel bisogno è visto con ammirazione in ogni religione, ma l’Islam ha dichiarato il servizio all’umanità come il supremo principio morale e il più grande atto di culto. Allah Onnipotente non ha donato agli esseri umani lo stesso colore, la stessa razza, lo stesso ambiente geografico, lo stesso credo, le stesse capacità e caratteristiche, ma ha mantenuto differenze tra tutti gli esseri umani e tale differenza costituisce la bellezza di questo universo.

Il Profeta dell’Islam dice: Al-Khalq Ayya Allah

“Gli esseri umani sono la famiglia di Allah e colui che è più caro ad Allah è chi è più utile alla Sua famiglia” (dal Sahih di Muslim).

Onorevoli ospiti!

Questo non è solo l’argomento di oggi, ma un messaggio universale del Corano e un messaggio dell’Islam, il messaggio di pace e questo è il messaggio del Pakistan e costituisce la forma autentica di rispetto per l’umanità: dar valore agli esseri umani.

Allah dice, nel santo Corano: “Walqd Karmana Bani Adam”

“che Noi abbiamo onorato e dato dignità ai figli di Adamo”.

E noi siamo tutti figli di Adamo (la pace sia su di lui), indipendentemente dalla nostra estrazione.

Per quel che riguarda il rispetto e la protezione dell’umanità, rendo omaggio a tutti gli accordi delle società occidentali ed islamiche, specialmente la Conferenza della Mecca , la Conferenza di Madrid , le dichiarazioni della Comunità dei Santuari, ma io devo qui menzionare la Costituzione di Medina (VII sec. d.C., NdT) che, non tenendo conto di colore, razza e religione, si è presentata in modo tale da essere considerata, nella storia del mondo, ciò che ha garantito i diritti fondamentali di musulmani, ebrei e cristiani ed ha garantito una vita pacifica e questo ancor più quando il Profeta dell’Islam (pace e benedizione su di lui) ospitò la delegazione dei cristiani di Najran nella moschea del Profeta (pace e benedizione su di lui). È stato un messaggio universale. Egli ha trasmesso il messaggio che l’Islam è una religione che vuole pace, amore e rispetto e questo è il nostro punto di riferimento per l’armonia interreligiosa in Pakistan, e noi stiamo diventando una fonte di benedizioni per i nostri concittadini e fratelli cristiani. Certo, oggi è un grande giorno e siamo esortati alla giusta causa per cui salvare la vita di una persona equivale a salvare la vita dell’intera umanità e noi tutti abbiamo portato avanti questo grande messaggio, per mezzo di questo incontro. Tutti noi porteremo questo messaggio in ogni angolo del mondo.

Signor Presidente!
Alhamdulillah – Grazie ad Allah

Il Signore dell’Universo ha guardato con favore la nostra scelta di conseguire questi grandi obiettivi, in Pakistan. Quando accade un evento spiacevole, come le recenti alluvioni che hanno causato perdita di vite e un grave tracollo economico ovunque, o il caso dei fratelli cristiani della Joseph Colony  di Lahore, la tragedia di Peshawar , di Kot Radha Kishan  o l’esplosione di una bomba in una chiesa, ci facciamo avanti, raccogliamo una delegazione di personalità autorevoli e ci rechiamo in loco ad aiutare i nostri fratelli e sorelle. Nella mia veste di grande Imam del Pakistan, personalmente assicuro loro che non si troverà riposo fino all’arresto degli oppressori, perché la Costituzione del Pakistan ha dato uguali diritti a tutte le persone ed ha garantito la protezione dei diritti fondamentali. In questa occasione, vorrei ringraziare il Governo del Pakistan, l’Esercito pakistano e tutte le istituzioni nazionali che svolgono il compito loro affidato. Componenti delle forze armate e di polizia hanno sacrificato la loro vita per la restaurazione della pace ed hanno svolto la propria parte per fare dell’amata patria una culla di pace ed amore. Apprezziamo i loro sacrifici e li salutiamo.

A questo proposito, menzionerò senz’altro Paigham-e-Pakistan, il “messaggio del Pakistan”  e il suo grande messaggio. Questo costituisce l’unanime decisione e messaggio dei sapienti del Pakistan e faremo di questo messaggio la voce di tutti in Pakistan e lo porteremo anche al mondo intero. La realtà è che non c’è luogo in Pakistan ove non ci sia stata l’esplosione di una bomba o un attacco terroristico: imambargah (centri rituali sciiti, NdT), moschee, centri di preghiera, riunioni religiose e politiche, stazioni di polizia, installazioni e centri dell’esercito, persino ospedali. Scuole, collegi, università e madrase non sono state risparmiate. Più di centomila pakistani sono caduti vittime di questo terrorismo. Più di tre milioni di persone sono rimaste senza casa, le loro case sono state distrutte, genitori sono stati privati del loro sostegno e della loro speranza, il futuro di migliaia di figli si è fatto buio, si sono verificate perdite economiche per miliardi di dollari, e purtroppo tutto ciò è avvenuto in nome della religione.

La mia domanda è: è questo il risultato della religione e degli insegnamenti religiosi?
Assolutamente no. Assolutamente no.

Onorevole Presidente!

Dichiaro con fermezza e audacia, innanzi a questa onorevole assemblea, che questi eventi e fatti di violenza non hanno niente a che fare con la religione, sono una macchia sul nome della religione; religione e violenza sono due termini differenti e in contraddizione tra loro, come pace e guerra. Voglio rivolgere delle domande a questa onorevole assemblea, a proposito dell’attuale condizione del mondo.

Come possiamo evidenziare gli aspetti non violenti delle religioni e le loro qualità e caratteristiche pacifiche? Oggi, si deve dire e far comprendere al mondo che le religioni sono portatrici di pace, desiderose di condividere e promuovere l’amore, di porre fine all’odio, alle guerre ed ai conflitti. 

Perché, oggi, i leader dei [movimenti per i] diritti umani, le Nazioni Unite, le organizzazioni internazionali, l’Unione europea, i Paesi islamici, i rappresentanti delle religioni mondiali e delle organizzazioni a queste correlate tacciono? Le nostre religioni non ci consigliano forse di astenersi dalla crudeltà? Le religioni e l’umanità sono morte in noi? Penso di no, per nulla. Useremo tutte queste risorse per assicurare vie di pace, in particolare per la Palestina occupata, l’Iraq, l’Afghanistan, l’Ucraina, Myanmar e il Kashmir occupato. Infine, ancora una volta, sono grato a tutti gli organizzatori della conferenza della Comunità di Sant’Egidio per aver promosso l’incontro di oggi su un tema così importante. Ricorderò certamente il vostro affetto quando tornerò in Pakistan. Inshallah. Grazie molte.

Donatella Di Cesare

Sapienza Università di Roma, Italia
 biografia

Viviamo in tempi in cui una vita è considerata “una vita come un’altra” – nel senso dell’equivalenza generalizzata, e perciò della misurazione, del tornaconto, dei numeri che contano più delle persone, dei conti che devono tornare. Conviene, non conviene? È utile? Dà vantaggio, offre profitto? Nella morsa di queste relazioni quantitative, in cui è perduta la qualità umana, una vita non è più “una” nella sua unicità insostituibile. Perciò senza troppi sensi di colpa può essere lasciata cadere, consumata e dissipata, abbandonata e consegnata al bando, cioè letteralmente allontanata ed espulsa dal consesso che solo merita di essere qualificato umano.   

Basti ricordare quelle vite che ormai quasi quotidianamente vengono lasciate morire tra i flutti del mare, oppure ai confini europei. Sono vite considerate superflue, sono esseri trattati come scorie e rifiuti, di cui non si sa che fare. Possono vivere, o meglio sopravvivere, nei grandi campi per rifugiati, consegnati a un’esistenza in attesa, che non è neppure esistenza. Ma se solo dovessero tentare di muoversi, allora diventa chiaro che quelle vite sono considerate inservibili, equivalente a zero, a meno che zero, condannate in partenza.   

Ma la cesura tra le vite votate a essere immuni, indenni, e quelle che possono essere esposte e perire, non passa solo tra il dentro e il fuori del paesaggio politico, tra chi è cittadino e chi è immigrato. La cesura passa anche all’interno seguendo i meandri di una violenza diffusa – per le strade, nelle scuole, sui luoghi di lavoro, all’interno del nucleo familiare. La vita appare priva di valore – privata del senso dell’umano e del divino. Come se non avesse più nulla di sacro, come se non fosse unica, insostituibile, irripetibile. Come se uscisse da una catena di produzione che dovrebbe rimpiazzarla immediatamente dopo. Non ci si ferma più davanti alla vita di ciascuno e non si impara a fermarsi davanti al volto altrui nella sua unicità.

Unicità della vita perduta – unicità di chi salva, che è lì in quell’istante e che deve farsi carico di quella vita, ne ha la responsabilità. L’unicità dell’io sta nel fatto che nessuno può rispondere al suo posto. E questo posto privilegiato è la sua responsabilità.  Proprio la responsabilità verso l’altro è ciò che oggi manca di più, mentre domina l’in-sistenza in sé, chiusa e ottusa, sempre più povera. Perché quando si perde una vita, si perde un mondo – quel mondo dell’altro, che però è anche il mio, il nostro. Siamo sempre più poveri di altri e più poveri di mondo, condannati a quel profondo disagio che solo un po’ genericamente può essere chiamato depressione. Non c’è il senso del riscatto: dell’altro, di me, di noi, del nostro mondo.

L’io che non si sottrae all’unicità della propria chiamata, della propria responsabilità, è quello che si proietta in un mondo di pace. Non è la pace dell’equidistanza, dell’imperturbabilità, della non-aggressione che assicura a ciascuno la propria posizione, bensì la pace della relazione con l’altro. E questo vale tanto più per i soggetti politici, per quei popoli europei, chiamati a coabitare dalla lezione novecentesca della violenza e dello sterminio, che sono scivolati oggi verso un sanguinoso conflitto nazionalistico, dove decine di migliaia di vite umane vengono immolate quotidianamente. 

Perché dovremmo accettare la morte come soluzione inevitabile dei conflitti? Perché dovremmo allontanarci dalle vie della civiltà per abbracciare la mistica dell’eroismo? Una politica che non salva la vita, ma che richiede la morte, che la pretende come soluzione necessaria, è una necropolitica. 

Così vengono disegnati mondi di morte, forme di coesistenza sociale in cui violenza, sopraffazione, arroganza determinano le relazioni personali e decidono le vite dei singoli. Allora questa guerra finirebbe per diventare, in una terribile spirale, un attacco alla vita dell’intero pianeta, al ciclo alimentare, energetico, esistenziale.

Armand Puig I Tàrrech

Teologo cattolico, Spagna
 biografia

L’anticha saggezza dei rabbini, raccolta nella Mishnà, si interroga sul motivo della creazione di un solo uomo all’inizio del mondo. La risposta sottolinea l’importanza di un solo essere umano, di cui si afferma il valore pari al mondo nel suo insieme. Ecco le parole dei saggi d’Israele: «Se qualsiasi uomo provoca che muoia una sola persona, la Scrittura lo fa responsabile di aver provocato la morte del mondo intero; e se qualsiasi uomo salva e mantiene in vita una sola persona, la Scrittura lo fa responsabile di aver salvato e mantenuto in vita il mondo intero» (trattato Sanhedrin 4,5) (ed. Danby). In breve, si può affermare che, quindi, salvare una vita significa salvare tutto il mondo, tutta l’umanità. La ragione è chiara: se Adamo, il primo uomo, fosse stato ucciso, tutta l’umanità sarebbe morta con lui, e sarebbe sparita la possibilità di generare l’intera famiglia umana. Orbene, tutti siamo Adamo, come precisa Paolo (cf. Prima lettera ai Corinzi 15,22), e quindi tutti siamo uniti a lui come membri della stessa umanità. Tutti siamo uno, e la morte e la vita di uno raggiungono l’insieme degli uomini e le donne di tutti i tempi. Chi salva una vita salva il mondo intero.        

Le conseguenze di questo principio sono enormi, particolarmente in un mondo dove aumentano sempre di più le vite indebolite dalle malattie, dall’età, dalle circostanze in cui uno vive o ha vissuto. D’altronde, i progressi compiuti nella medicina per guarire le malattie e la salvaguardia dei problemi di salute, sono straordinari. L’età media delle popolazioni nella maggior parte delle regioni del mondo, è salita esponenzialmente negli ultimi decenni. Gli anziani non sono più un’eccezione ma una realtà umana che coinvolge un’alta percentuale della popolazione mondiale. 

Ma, allo stesso tempo, si può constatare una certa contraddizione. Da una parte, si ritiene che le terapie mediche che contribuiscono alla salute e quindi al prolungamento della vita sono una «benedizione» per tutti, specie per i giovani e gli adulti, che vedono diminuire le cause di morte per malattia rispetto alle precedenti generazioni. D’altra parte, molti pensano che, se la salute è precaria e le malattie colpiscono la persona, in modo tale che gli anni di vita in più possono diventare una «maledizione», sarebbe meglio abbreviare questa vita. Ma anche in questo caso, si deve mantenere il principio della vita protetta perché debole, accompagnata perché difficile, particolarmente amata proprio perché più fragile. Infatti, l’emarginazione degli anziani, secondo le parole di Andrea Riccardi, «costruisce la nostra società sulla sabbia», e perciò, come afferma anche lui stesso: «chi fa spazio agli anziani fa spazio alla vita» (cf. M.C. Marazzi – A. Spreafico – F. Tedeschi, Gli anziani e la Bibbia. Letture spirituali della vecchiaia, ed. Morcelliana, 2020, pp. 12-13).           

Ci chiediamo qual è il rapporto tra una sola persona e l’umanità tutta intera. Dal punto di vista meramente numerico e quantitativo è ovvio che una persona conta di meno che centomila. È stato Caifa, il sommo sacerdote, qualche settimana prima della morte di Gesù, a formulare il primato del criterio della quantità dinanzi al sinedrio di Israele, dicendo: «È conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!» (Gv 11,50). Il criterio della quantità intende sottolineare che c’è una differenza sostanziale tra un solo uomo e il mondo intero, oppure tra un gruppo di uomini e l’insieme dell’umanità. Di conseguenza, secondo questo criterio, non sarebbe corretto dire che salvare una vita significa salvarle tutte. Ad esempio, una vita debole non avrebbe lo stesso peso di una vita vigorosa. La vita di un anziano non avrebbe lo stesso valore di quella di un giovane. 

Questo ragionamento si fonda sull’analisi che un anziano possiede una umanità scaduta, tramontante, quasi imperfetta, mentre un giovane ha davanti a sé un lungo futuro ed è in grado di contribuire alla ricchezza comune. Entra ora in gioco un secondo criterio, quello dell’utilità, concepito in termini di risultati: un anziano necessita ricevere molteplici attenzioni, al contrario di un giovane, il quale in genere non ha problemi di salute e può offrire un contributo «positivo» alla società. Secondo questa prospettiva, non tutte le vite sarebbero egualmente rilevanti. Alcune sarebbero più utili di altre, e dunque salvare una vita che tramonta o si spegne non sarebbe una buona scelta,  considerando, ad esempio, le risorse da impiegare.       

I criteri della quantità e dell’utilità non contribuiscono a salvare la vita di nessuno. Al contrario, questi criteri portano piuttosto ad un inganno, perché non salvano né la vita propria, né quella altrui. Il criterio della quantità porta all’ingiustizia e alla discriminazione. Se una persona umana, per un motivo qualsiasi, viene contrapposta a molti, questo fatto basta per sottovalutarla e negare ad essa la sua dignità, che condivide, d’altronde, con tutte le altre persone. Il criterio dell’utilità conduce in modo simile allo scarto dell’altro, che è giudicato e condannato perché la sua vita è concepita in termini produttivi, cioè materialisti, senza tener conto del suo contributo alla dimensione spirituale della società: la presenza di un anziano suscita amore, come accade anche di fronte ad un bambino. I criteri dell’utilità e della quantità quindi trascurano questa dimensione spirituale, che invece è essenziale ed appartiene a quei movimenti sotterranei della storia che sono fonte di quelle energie di bene che cambiano il mondo e lo trasformano. 

Così, la voglia di vivere di un anziano diventa uno stimolo enorme per un giovane che cerca la strada della propria vita e forse è tentato di pensare che non c’è un futuro per lui. In questo senso, un anziano può diventare una persona estremamente utile a tutti perché è capace di trasmettere la forza debole della sua vita, ad esempio, a un giovane. Costui può scoprire, grazie all’anziano, le molte energie che abitano nel suo cuore e le grandi possibilità che si aprono dinanzi a lui per costruire un mondo in pace. Inoltre, un anziano che salva un giovane da una vita buia, salva, tramite questo giovane, il mondo intero, perché non c’è mondo senza sogni né futuro.           

Arriviamo al concetto chiave del nostro discorso: la relazione tra le persone come strumento di salvezza di ognuno e del mondo nel suo insieme. La conoscenza dell’altro può essere un fatto casuale, episodico, dettato dalle circostanze, ma anche un’occasione opportuna e bella perché sgorga da essa un incontro, nel senso pieno della parola. Un incontro è un avvicinamento, ed è il contrario dello scontro che è un rifiuto violento. Ma c’è anche un rifiuto «educato», un respingere l’altro con l’indifferenza. La salvezza dell’altro non si raggiunge mettendo l’altro tra parentesi. I rapporti deboli tra le persone che caratterizzano il nostro mondo portano spesso a trattare gli altri con la logica dell’indifferenza la quale si mostra sempre incapace di salvare. Con l’indifferenza si fa finta di accogliere l’altro, i suoi bisogni, le sue angosce, i suoi progetti, ma la sua vita resta distante, lontana. Domina l’incapacità di cogliere quello che nell’altro è diverso da me. Un rapporto segnato dall’indifferenza, anche “cortese”, non salva nessuno, non cambia la vita, soltanto la edulcora. L’indifferenza non cambia nessuno né cambia il mondo.

Per salvare una vita e il mondo intero, ci vogliono la compassione e la passione. Soltanto così passiamo dalla conoscenza alla riconoscenza dell’altro. Ogni giorno entriamo in contatto con molte persone, che ci vengono presentate oppure che incontriamo per caso. Con alcune –chiaramente, non con tutte– si apre la possibilità dell’incontro, del rapporto personale e duraturo, almeno nell’intenzione. Ma per gioire di questo incontro, bisogna sconfiggere la logica dell’indifferenza che, come il serpente del paradiso, sussurra dentro di noi sentimenti di distacco dall’altro e alza delle mura. Certo, le mura più sottili non sono quelli del rifiuto esplicito dell’altro, ma dell’indifferenza verso di lui. L’indifferenza non permette di costruire ponti, ma, al contrario del rifiuto, si mostra politically correct e non fa sentire nella coscienza il peso del peccato per non aver costruito quei ponti.                    

Soltanto il superamento della logica dell’indifferenza porta alla compassione verso l’altro e alla passione per trasformare il mondo, per cambiare l’umanità. Allora si compie l’aforisma dell’antica saggezza rabbinica: salvare una vita per salvare il mondo intero. Infatti l’indifferenza impedisce il passaggio dalla conoscenza all’incontro con l’altro. La compassione come dono gratuito sparisce quando nel cuore rimangono tracce di freddezza, atteggiamenti mescolati di apertura e chiusura, giudizio dell’altro, paura di coinvolgersi con la sua vita. 

Si salva l’altro quando si è pronti a ripetere la storia del samaritano della parabola, che ha visto un uomo sconosciuto e mezzo morto ai bordi della strada (Lc 10,25-37). Costui avrebbe rischiato la vita se non ci fosse stato nessuno a salvarlo, cioè, a fermarsi presso di lui e usare misericordia con lui, prendendosene cura. Non c’era nessun obbligo per quel samaritano; anzi, era fuori del suo paese e quel ferito era, probabilmente, per lui uno straniero ebreo. Il samaritano avrebbe potuto lasciare quell’ uomo lì dov’era: nessuno glielo avrebbe rimproverato. La logica dell’indifferenza poteva imporsi. La compassione non era scontata. Ma quel samaritano ha scelto la misericordia, e, al contrario del sacerdote e del levita, ha messo da parte l’indifferenza. Ha preferito salvare una vita prima di lasciar che si perdesse. Quell’uomo mezzo morto sulla strada di Gerico rappresenta l’umanità intera, al di là delle etnie e delle religioni, delle lingue e delle culture. Caricarsi quell’uomo sulle spalle è caricarsi tutta l’umanità. Il linguaggio dell’amore non è limitato da nessuna frontiera, da nessuna considerazione, da nessun criterio. Questo linguaggio esprime per sé stesso un principio, che va oltre i criteri della quantità e dell’utilità: il principio della misericordia. Chiunque lo viva, salverà la vita dell’altro e salverà il mondo intero.



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