Una via purifica una illumina una conduce a Dio (San.G.PaoloII)

«“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». Gesu'

 
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Assemblea d'Inaugurazione "Il Grido della Pace"

Ultimo Aggiornamento: 15/09/2023 20:30
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Città: CORIGLIANO CALABRO
Età: 55
Sesso: Maschile
15/09/2023 20:23




Hilde Kieboom

Comunità di Sant’Egidio, Belgio
 biografia

Signor Presidente Mattarella, 
Monsieur le President Macron, 
Eminenze, Eccellenze, Signore e Signori, cari amici,

È davvero con grande gioia che do un caloroso benvenuto ad ognuno di voi all’apertura dell’incontro interreligioso per la pace nello spirito di Assisi. Sono oggi 36 anni di incontri, amicizie, preghiere per la pace. L’inaugurazione di questa sera assume un tono solenne per la presenza, accanto ai rappresentati delle grandi religioni mondiali e di personalità della cultura e della società civile da ogni parte del mondo, anche di due presidenti di altissimo profilo politico e morale che ci onorano della loro presenza.

L’incontro di questo anno 2022 ha un significato tutto particolare se guardiamo all’Europa e all’orizzonte globale. Nel continente europeo che da quasi 80 anni vive il “no more war” si è aperta la ferita della mancanza di dialogo e fratellanza universale in una guerra tra popoli fratelli in Ucraina, ma anche altre violenze e conflitti persistono come in Siria, nel Corno d’Africa e nel Nord del Mozambico. Il tono drammatico del mondo si riflette nel titolo un po’ provocatorio di questo incontro: il grido della pace. Grido perchè vogliamo fare nostri l’ansia ed i gemiti di pace che esistono in tanti uomini, donne, bambini nel mondo, ma che spesso sono soffocati o poco ascoltati. Questa platea con dei protagonisti di così alto livello vuole dare voce in modo autorevole alla voglia di pace che vive -spesso contro ogni speranza- in tanti oggi. Quindi facciamo nostro il grido per la pace. 

 

Ma grido anche della pace, nel senso che esprime l’urgenza, e il bisogno di fare sentire più alto e con più convinzione questo desiderio e questa possibilità. Infatti, la pace non è “soft”, pensata e voluta da buonisti ingenui: la pace è l’unico modo per garantire la sopravvivenza del pianeta e dei popoli. Quindi un grido per la pace, ma allo stesso momento anche un grido della pace, che chiede di essere valorizzata come unica via umana, spirituale ma anche ragionevole e razionale da un mondo bloccato su logiche violente ed egoiste perchè ispirate da pensieri corti. 

Andrea Riccardi

Storico, fondatore della Comunità di Sant’Egidio
 biografia

Questi giorni raccolgono a Roma leader e credenti di varie religioni con umanisti laici, non nel chiuso di un laboratorio, ma di fronte agli scenari del mondo, davanti alla guerra. La guerra è infatti tornata sul suolo europeo con l’invasione russa della martoriata Ucraina e tuttora non si vede una via d’uscita. Del resto, questo nostro mondo globale, per configurazione, pluralità di attori e potenza degli armamenti, favorisce che le guerre si eternizzino senza finire, com’è oggi in Siria, dove ci sono ragazzi la cui giovane vita ha visto solo il tempo di guerra. 

Bisogna ascoltare il “grido della pace” che viene da varie parti del mondo! Questi sono anche giorni di preghiera e spiritualità. La preghiera è sorella del grido di dolore di chi soffre guerra e povertà. In ogni grido e invocazione è espressa la richiesta di un futuro più umano. 

L’incontro di questi giorni è frutto di una storia che vorrei evocare brevemente. Veniamo da lontano. Come Comunità di Sant’Egidio, nata nel 1968 tra giovani, poveri e periferie. Come amici del dialogo, veniamo dal grande secolo che fu il Novecento, ma anche tempo di terribili conflitti. La smemoratezza eccitata del presente non è mai stata nostra. Scriveva Hannah Arendt: “memoria e profondità sono la stessa cosa, o meglio, l’uomo può raggiungere la profondità soltanto attraverso la memoria”. La profondità è una risorsa di libertà di fronte ai prepotenti semplificatori del nostro tempo, invece in sé tanto complesso, anzi inspiegabile con le semplificazioni.

Le religioni non sono fossili, che la modernità e il pensare scientifico alla fine seppellirà, come credeva tanto pensiero pubblico occidentale. Sono organismi vivi: raccolgono gli aneliti di comunità radicate nelle terre, vicine al dolore, alla gioia e al sudore delle persone. Ho visto la preghiera dei disperati in luoghi inumani o nei viaggi terribili dei profughi. Le religioni non si chiudono nella bolla come parecchie istituzioni. Restano in genere sulla terra e tra le case: la sinagoga, la chiesa, la moschea, il tempio. Per questo, se si vuole umiliare l’anima di un popolo, si distruggono i luoghi sacri e si violano le donne.

Siamo stati testimoni di una svolta: l’incontro del 1986 ad Assisi, la patria di San Francesco. Allora lì, Giovanni Paolo II propose una visione: le religioni, non l’una contro l’altra, ma insieme e che pregano per la pace. Una visione che superava l’ignoranza reciproca e i conflitti tra credenti. Era ancora il tempo della guerra fredda. Giovanni Paolo II guardò oltre e intuì che ogni religione, quando tende alla pace, dà il meglio di sé. 

Assisi nel 1986 fu per noi una visione ispiratrice. Un messaggio che preparava la globalizzazione nella prospettiva di un destino comune nella diversità. A questa visione abbiamo cercato di essere fedeli. La esprimo con le parole dell'antropologa francese Germaine Tillion, scampata dal lager nazista: "Tutti parenti, tutti differenti". 

Abbiamo continuato, per trentacinque anni, fino a qui, la strada del dialogo con incontri, conoscenza, creando una rete nell’amicizia e nello scambio, facendo tappa in varie parti del mondo, riunendo figure spirituali sapienti, cercatori di pace, animi inquieti, laici pensosi. Sempre in confronto con la realtà storica, umana e politica del momento. Il dialogo, anche quando avviene sull’Eterno, accade nella storia concreta. In questo solco le parole sono importanti, ma pure i fatti: ad esempio, è nata la pace in Mozambico, dopo una guerra che ha provocato un milione di morti, negoziata trent’anni fa, nel 1992, a Roma, a Sant’Egidio.

La caduta del Muro e la globalizzazione aprivano una stagione in cui realizzare le speranze del Novecento. Tutto –dall’economia, alla finanza, ai media- si unificava, inaugurando una bella epoca globale. Si trascurava in buona parte di negoziare con la globalizzazione vincente, assegnandole spesso il ruolo di provvidenza. 

Le religioni sono “le globalizzatrici originarie” -scrive Miroslav Volf-; professano valori universali e credono in un’unica famiglia umana. La globalizzazione resta una grande occasione per chi punta sul dialogo. Ma bisogna lavorarci! Condividiamo con convinzione quanto lei, Signor Presidente Macron, disse nel 2018 ai Bernardins: “Non c’è nulla di più urgente oggi che accrescere la conoscenza reciproca dei popoli, delle culture e delle religioni”. 

Infatti il nuovo gigante globale ha bisogno d’anima. L’anima cresce nel dialogo, nell’amicizia, nella preghiera. “Chi è veramente sapiente?” -si chiedeva un discepolo di rabbi Akivà nel secondo secolo. Rispondeva: “Chi impara da ogni uomo”. Dialogo e ascolto sono la struttura fondamentale delle tradizioni religiose. Dialogo con Dio: la preghiera; con i testi sacri; dialogo tra tutti, anche perché -come scriveva il poeta russo con origini ucraine, Evtušenko: “non esistono al mondo uomini non interessanti”. Papa Francesco, visitando Sant'Egidio anni fa, ha esclamato con preoccupazione: "Il mondo soffoca senza dialogo".

Alcune comunità religiose, però, si sono chiuse nel separatismo dalla storia comune con autosufficienza. Del resto i passi di religioni antiche sono talvolta cauti. Alcuni settori religiosi hanno sacralizzato le identità nazionali. Altri, purtroppo, hanno perduto l’anima con la violenza, il terrorismo e il radicalismo, allontanandosi dalla religione, pur presentandosi invece come autentica religione. Questo è un dramma per tutti. 

Il mondo globale ha portato la pace, ma anche ha prodotto tanta guerra. Scompariva la generazione della seconda guerra mondiale e della Shoah in un mondo facile all’oblio. Negli anni, è cresciuta l’assuefazione all’idea che la guerra sia una compagna naturale della storia. Si è andato smorzando quel patrimonio di tensioni, ereditate dal Novecento che tendevano a unire i destini oltre i confini. Giorgio La Pira, l’iniziatore dei dialoghi mediterranei, le chiamava “tensioni unitive”: tensioni alla pace, l’ecumenismo, la responsabilità verso i mondi più poveri, la cooperazione per una giustizia planetaria. Questo avviene oggi, proprio mentre la crisi della terra rivela, con un’evidenza indiscutibile, che abbiamo un solo destino: “tutti sulla stessa barca” -ha detto papa Francesco durante la pandemia.

“Tutti sulla stessa barca”. Il maliano Lassana Bathily, testimone dei fatti terroristici di Parigi del 2015 nel supermercato kosher, quando sedicenti musulmani uccisero ebrei ed altri, salvò alcuni ebrei dai terroristi: "Sì, ho aiutato gli ebrei -disse-. Siamo tutti fratelli. Non è questione di ebrei, cristiani e musulmani, siamo tutti sulla stessa barca". Dall’immigrato maliano al papa di Roma, la coscienza del destino comune percorre i mondi religiosi e la gente. 

In questa coscienza sono le risorse per un’immaginazione alternativa che disegni una visione di pace a fronte di pensieri stanchi e rassegnati. Senza immaginazione alternativa, restiamo prigionieri di un presente senza speranza, destinati a subire l’iniziativa degli altri o la loro prepotenza. Utopia? Sogno? L’immaginazione è una visione offerta a tutti. Nella memoria, troviamo elementi ed energie per una visione di pace. Una politica realista ha bisogno di una visione più ampia alla luce della quale muoversi. La speranza comincia con il rifiuto di una lettura scontata del presente, senza guardare oltre. Il vero realismo ha bisogno di questa visione. Lei, Signor Presidente Mattarella, ha detto recentemente ad Assisi: “Non ci arrendiamo alla logica di guerra, che consuma la ragione e la vita delle persone e spinge a intollerabili crescendo di morti e devastazioni. Che sta rendendo il mondo più povero e rischia di avviarlo verso la distruzione”.

Tutto questo però non è così evidente. I sazi non sanno sognare. I paurosi temono sogni e visioni. Sazietà e paura spingono a moltiplicare le difese, a securizzare i propri spazi, a fortificare le identità, ad attaccare arbitrariamente, al parlarsi duro, a guerre senza fine. 

Questa situazione spinge a immaginare visioni di pace con più audacia. Un’immaginazione profetica o poetica, insomma una visione, è proprio necessaria in un tempo stretto tra poche alternative. Quando le menti e i cuori si aprono, nascono strade per rispondere al grido della pace. Vorrei concludere con un poeta, Muhammed Iqbal, detto il “padre spirituale del Pakistan”, tratte da una poesia Il Destino del 1923:

“Abbi dunque l’ardire di crescere, osa! Non è così stretto lo spazio!

O uomo di Dio! Non è stretto lo spazio del regno dei cieli!”.

No, lo spazio è più grande di quello che crediamo: la realtà è più vasta delle rappresentazioni dei realisti, degli spaventati, degli aggressivi.

Sergio Mattarella

Presidente della Repubblica Italiana
 biografia

Desidero ringraziare il Presidente Marco Impagliazzo per l’invito a questo incontro, così significativo.

Rivolgo un saluto di grande cordialità al Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron, ospite di questo evento.

Saluto cordialmente anche il Presidente della Conferenza Episcopale italiana, il Segretario Generale della Lega Musulmana mondiale e il Rabbino capo di Francia.

Un saluto cordiale a tutti i presenti. Benvenuti a Roma.

Il momento in cui avviene questo incontro richiama tutti noi a corrispondere a una responsabilità esigente.

Lo “Spirito di Assisi” spira dal 27 ottobre del 1986, giorno in cui Giovanni Paolo II riunì, per la prima volta, rappresentanti delle religioni mondiali per chiedere la fine dei conflitti nella città di San Francesco.

Rappresentò una breve tregua universale, mentre si levava la preghiera interreligiosa per invocare la pace.

Testimonianza di quanto religioni e politica possano e debbano parlarsi; e della forza che le religioni racchiudono e possono esprimere nella loro accezione più alta e consapevole.

Dinanzi a un presente tanto inquietante, al proliferare di conflitti in tante parti del mondo, a una guerra che di nuovo insanguina l’Europa, si sarebbe indotti a pensare che l’umanità non sia in grado di imparare dai propri errori, che si sia smarrita quella memoria collettiva che dovrebbe guidare e dovrebbe impedire di commettere gli stessi tragici errori.

La preghiera di Assisi è stata un seme gettato consapevolmente dai leader religiosi di fronte alla aggressione recata al bene della vita, al diritto della persona – di ogni persona - a vivere in pace. È stata un’espressione vigorosa della loro capacità di raccogliere - come diceva poc’anzi il professor Riccardi – “gli aneliti, le sensibilità, le attese di comunità radicate nei territori vicini alle sofferenze, alle speranze, al sudore delle persone”. Ed è stata, altresì, un’espressione vigorosa della loro libertà.

Un seme fatto fruttare da chi, come la Comunità di Sant’Egidio opera quotidianamente, anche con una azione preziosa di mediazione per la pace: non “incontri casuali” ma tenace perseguimento di sentieri di pace.

È questo l’impegno di tanti protagonisti - di ispirazione religiosa e non - per costruire ponti di solidarietà e di dialogo: a loro va la nostra sincera riconoscenza.

Si tratta di un impegno che invoca il contributo di ciascuno affinché “il grido della pace” si diffonda con sempre nuova forza.

Per questo siamo qui oggi, in tanti, da diverse parti del mondo.

La sfida è sempre la stessa: realizzare con perseveranza percorsi di pace, attraverso un impegno collettivo della comunità internazionale che valorizzi il dialogo, i negoziati, il ricorso alla diplomazia in luogo delle armi.

Si tratta di un lavoro faticoso, che richiede cura e opera paziente, perché la pace è tale soltanto se porta con sé l’antidoto contro l’insorgere di nuove guerre, se è sostenibile nel tempo e se è ampiamente condivisa.

È un patrimonio che in Europa abbiamo dato per scontato e di cui oggi, invece, ci viene drammaticamente ricordata la fragilità.

La pace è un processo, non un momento della storia: ha bisogno di coraggio, di determinazione, di volontà politica e di impegno dei singoli.

L’opera delle religioni e dei loro leaders in questa direzione è fondamentale, a partire dal richiamo che uomini e donne sono “figli e figlie dello stesso cielo”.

Vale per il rispetto reciproco tra le diverse comunità dei credenti, vale per il rispetto della dignità di ogni persona e di ogni popolo.

Dunque, se le religioni sono - come ha ricordato Sua Santità Francesco - “parte della soluzione per una convivenza più armoniosa”, con l’affermazione di “un sacro valore della fraternità”, è il valore della solidarietà a dover ispirare l’ordinamento internazionale.

È la convinzione del Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayeb, quando ribadisce che “la pace fra i popoli è un frutto della pace tra le religioni e la fraternità religiosa è il motore della fraternità umana universale”.

Sono parole che rappresentano passi avanti fondamentali.

Non esiste una “guerra santa”!

Deve esistere, invece, una “pace santa”, per servire autenticamente l’umanità e il suo futuro.

Il disordine produce disordine. Le guerre hanno un effetto “domino”, moltiplicatore. Le guerre sono contagiose.

Ma, come ha scritto il rabbino Haïm Korsia “occorre reinventare le aurore”.

L’impegno genuino delle religioni sul terreno temporale non può prescindere da questo orizzonte. Ed è confortante registrare quanti passi sono stati compiuti nel dialogo tra i leader di diverse confessioni religiose e il contributo che recano alla causa della pace.

Esistono ampi spazi nei quali leader civili e religiosi, ciascuno nell’ambito e nel rispetto delle prerogative proprie, possono unire i loro sforzi per il bene collettivo universale.

Come è naturale, è compito delle istituzioni e dei leaders politici collaborare alla definizione di un ordine internazionale che sottragga alla tentazione della guerra.

La condizione dei popoli è caratterizzata da forti disuguaglianze. Il rapporto Nord-Sud, in particolare - gravato da eredità e da condizioni contemporanee di grande sofferenza - è lontano dall’aver raggiunto un accettabile equilibrio che riconosca la dignità di ogni essere umano. Il tema della emigrazione e della immigrazione, che ne sono conseguenza, chiama la coscienza di ciascuno a interrogarsi sulla effettiva, autentica applicazione della Carta internazionale dei diritti umani.

Tutto questo invita a riflettere su quale sia la base che può consentire l’edificazione di un ordine internazionale più giusto, consapevole che i destini dell’umanità sono inevitabilmente condivisi e che il bene comune di una singola comunità deve integrarsi con il bene comune di ciascun’altra, e non contrapporvisi.

Il “fare pace” parte da una esigenza urgente: quella di restaurare i rapporti fra gli uomini.

La fine delle guerre ha sovente rappresentato, a mezzo di convenzioni e la stipula di trattati, l’elemento costituente di un nuovo equilibrio internazionale, basato sul riconoscimento dell’esistenza di potenze vincitrici e di Stati soccombenti.

A settantasette anni dalla Carta di San Francisco delle Nazioni Unite è legittimo guardare al prezioso cammino percorso e, insieme, valutare i limiti dell’esperienza compiuta.

Serve il coraggio di un passo avanti.

È possibile immaginare che il potere costituente dell’ordine internazionale non sia più soltanto la auspicabile conclusione dei conflitti, ma che, alla base di un nuovo ordine globale, vi possa essere spirito di pace?

Se vuoi la pace preparala: è stata un’esortazione più volte ripetuta nei secoli.

Non si può giungere alla pace esaltando la guerra e la volontà di potenza.

Perché la pace è integrale o non esiste.

E non esiste se non è corroborata da verità e giustizia.

A questi principi si sono conformate la Costituzione e i comportamenti della Repubblica Italiana sin dal suo sorgere.

Una Costituzione frutto di una coscienza che abbiamo dolorosamente maturato nella ferocia devastante della Seconda guerra mondiale, cui ci avevano condotto le dittature del Novecento.

È lo stesso spirito che ha animato i fondatori della costruzione europea – a partire dalla Dichiarazione Schuman del 1950 sino all’odierna Unione - dove è prevalsa una cultura di pace laddove per secoli aveva imperversato la guerra.

All’indomani del conflitto, la comunità internazionale decise di dotarsi di un sistema multilaterale teso anzitutto a prevenire e gestire i conflitti.

La condizione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu ben presto avrebbe limitato in larga misura il perseguimento di questa aspirazione e, ciò nonostante, innegabili sono stati i successi conseguiti nella cooperazione fra gli Stati.

Occorreva un ulteriore passo avanti che non riuscì a produrre - negli anni ‘90 del secolo scorso - neppure il venir meno della competizione tra sistemi politico-economici diversi che aveva caratterizzato la tensione bipolare del mondo.

Sono riapparse pulsioni che ci hanno ricondotto indietro. Persino ambiti fin qui dedicati a un comune impegno scientifico, come lo spazio, rischiano di diventare teatro di competizione militare.

Hanno fatto la loro ricomparsa i demoni, i fantasmi dell’aggressione dell’uomo contro l’uomo.

La sciagurata guerra mossa dalla Federazione Russa contro l’Ucraina rappresenta una sfida diretta ai valori della pace, mette ogni giorno in grave pericolo il popolo ucraino, colpisce anche il popolo russo, genera drammatiche conseguenze per il mondo intero.

Quella aggressione stravolge le regole, i principi e i valori della vita internazionale.

Approfondisce le divisioni nella comunità globale chiamata, invece, a trovare soluzioni cooperative urgenti a problemi comuni: le crisi sanitarie e alimentari, gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici, le minacce terroristiche.

Più che mai, in questo momento, abbiamo bisogno di un multilateralismo efficace.

In questo impegno comune, accanto alle istituzioni internazionali e agli Stati, risulta sempre più importante il contributo di tutte le espressioni della società.

La minaccia che ci troviamo ad affrontare induce taluno a porre di fronte allo spettro di un ricorso all’arma nucleare.

Sarebbe la perversa tentazione dell’escalation, della spirale di violenze che si alimentano di violenza.

L’affermazione della logica dei più brutali e insensati rapporti di forza, che credevamo relegati a un oscuro passato.

Dinanzi all’evocazione di scenari tanto terribili le nostre coscienze invocano la difesa di quel diritto alla pace che ci riunisce qui, oggi.

Una pace che non ignori il diritto a difendersi e non distolga lo sguardo dal dovere di prestare soccorso a un popolo aggredito.

Avvenga in Europa, in Medio-Oriente, in Africa, ovunque nel mondo.

In Ucraina, come altrove, occorre riannodare i fili dell’umanità che la guerra spezza: vite, famiglie, legami umani e sociali.

Occorre impedire che una nuova linea di “faglia” attraversi il mondo e si aggiunga alle troppe che già caratterizzano l’Europa, il Medio-Oriente, in tanti luoghi del mondo, separando i popoli con rinnovate cortine di odio.

Per quanto ci riguarda è anzitutto una sfida in Europa e per l’Europa.

Non possiamo consegnarci all’ingiustizia delle situazioni di fatto, né allo strazio di guerre “infinite”.

L’Europa non può e non deve permettersi di cadere “prigioniera” della precarietà, incapace di assolvere al suo naturale ruolo di garante di pace e di stabilità nel continente e nelle aree vicine.

Ne va della nostra stessa libertà e prosperità.

Non saranno mai abbastanza numerose le iniziative dirette a promuovere la pace, qui, come a Parigi, con la imminente quinta edizione del Forum de Paris sur la Paix, con un’ambizione inclusiva per una pace integrale.

Dobbiamo saper raccogliere l’urlo della sofferenza e il grido della pace che viene dalle donne e dagli uomini del pianeta, per tradurli in atti concreti che diano forza a un impegno condiviso e traducano in realtà la comune speranza.

Emmanuel Macron

Presidente della Repubblica Francese
 biografia

Il Foglio ha pubblicato ampi stralci del discorso che il presidente francese, Emmanuel Macron, ha tenuto domenica all’assemblea interreligiosa promossa dalla Comunità di Sant’Egidio dal titolo: “Il grido della pace – Religioni e cultura in dialogo”. Di seguito la trascrizione a cura del giornale. 

"Prima di tutto, vorrei dire che è un grande onore essere con voi oggi, ma allo stesso tempo, quando sono stato invitato e ho accettato l’invito, mi sono detto: stanno invitando il presidente di una Repubblica laica che ha una storia a volte complessa con le religioni. Allora mi sono detto: stanno invitando un presidente che è il capo della diplomazia ma anche dell’esercito di una potenza nucleare, nel mezzo di una guerra tornata in Europa. È un momento strano per venire a parlare di pace. Allora mi sono chiesto: caro Andrea (Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ndr), sei davvero un amico?

Riprendendo Molière: che cosa sono venuto a fare in questo pasticcio? A parlare cioè di pace ora, quando ogni giorno dobbiamo spiegare che dobbiamo resistere, che dobbiamo parlare di sconfitta del nemico, di vittoria, e che ovunque in Europa e nel mondo si attendono parole che il più delle volte sono bellicose. (...) Quando ieri ho chiamato Andrea, gli ho chiesto: cosa vi aspettate da me? Mi ha risposto in un modo che mi ha confortato. Ha detto: ci dica cosa si aspetta dalle religioni in questo momento. È ciò che cercherò di fare.
(...) Non permettiamo che la pace venga oggi catturata dalla potenza russa. Non è una parola per loro. Stanno facendo il contrario. E la pace oggi non può essere la consacrazione della legge del più forte, né il cessate-il-fuoco che cristallizzerebbe uno stato di fatto.

Stiamo quindi parlando di pace, di questo “grido di pace” che avete messo come titolo di questo incontro e su cui lavorerete insieme in questi giorni, nel momento in cui donne e uomini ucraini stanno combattendo per resistere, per difendere la propria dignità, per proteggere i propri confini, i propri territori e la propria sovranità. Ma una pace è possibile, quella che decideranno loro, quando decideranno, e che rispetterà i loro diritti di popolo sovrano. Quindi sì, proviamo a riflettere, a capire perché questa guerra in Ucraina ci scuote così nel profondo. Prima di tutto, perché come ha detto poco fa il presidente Mattarella, segna il ritorno della guerra sul suolo europeo e invece fino a ora la nostra Europa era riuscita nel miracolo di tenere la guerra lontana dal proprio suolo.

In secondo luogo, perché coinvolge una potenza dotata di armi nucleari.
Non c’è alcuna giustificazione per questa guerra. Non c’è alcuna spiegazione.
Ma provando ad astrarmi da questo momento e provando a capire, io che ho passato questi ultimi anni avendo conversazioni continue con il presidente russo Vladimir Putin, ho cercato le ragioni che ci hanno portati a questo punto, perché quando si è uno dei leader di questo mondo e si è cercato di reinserire la Russia nel concerto delle nazioni, per evitare, anche solo pochi mesi fa, questa guerra, non si può non chiedersi ogni giorno: come ci siamo arrivati, alla guerra? Non ho una risposta. Non so se ce n’è una sola, anzi penso che non ce ne sia soltanto una e che nessuna risposta giustifichi, spieghi o legittimi ogni cosa.

Credo, innanzitutto, che questa guerra sia il risultato di un nazionalismo esacerbato alimentato dal potere russo che si è nutrito del risentimento e dell’umiliazione nati in seguito alla disgregazione dell’impero sovietico. Poi questo potere si è nutrito e si è rafforzato isolandosi progressivamente dal resto del mondo. La pandemia ha in questo senso contribuito, costruendo la convinzione che c’erano delle minacce e che un qualche tipo di attacco all’esistenza stessa della Russia era il progetto del resto del mondo o meglio dell’occidente, giusto per citarci. Questa convinzione si è consolidata, basandosi su una forma di revisionismo storico, trasformando la storia contemporanea e moderna come una giustificazione di un progetto imperialista e colonizzatore che si fonda sull’invasione del proprio vicino. È quello che è accaduto, credo, in modo metodico negli ultimi mesi e negli ultimi anni.

La guerra in corso oggi è la guerra di una potenza che ha cercato di giustificarla e che ha costruito le proprie ragioni e la propria narrazione, ma non sono affatto certo che questa sia la guerra di tutto il popolo russo. Da qui bisogna partire per rispondere alla vostra questione, caro Andrea, lavorando con pazienza: è una cosa essenziale. Parlare al popolo russo e alle loro coscienze è essenziale. Questa guerra non può essere del tutto la loro guerra oggi.
Ora abbiamo deciso, e lo faremo fino all’ultimo, di sanzionare la Russia, di essere dalla parte del popolo ucraino per aiutarlo a resistere, da un punto di vista economico, umanitario e militare senza però prendere parte direttamente a questa guerra per non renderla globale. Ma perché a un certo punto il popolo ucraino possa scegliere la pace e perché possa scegliere il momento e i termini di una pace che avrà voluto.

Ciò che voglio dire è che esiste una prospettiva per la pace e che a un certo punto la pace esisterà, e in quel momento, in funzione di come si evolveranno le cose e quando il popolo ucraino e i suoi dirigenti l’avranno decisa con i termini che avranno deciso, la pace si costruirà con il nemico di oggi attorno a un tavolo e con anche la comunità internazionale presente.
Vi dico tutto questo portandovi la mia interpretazione provvisoria e imperfetta di quel che stiamo vivendo perché non siamo estranei a tutto ciò che accade. E quando parliamo di pace, stiamo parlando di una prospettiva che deve essere costruita. Oggi c’è un popolo che è stato aggredito, attaccato, e dall’altra parte ci sono dei leader che hanno deciso di aggredire, di invadere, di umiliare. Restare in disparte pensando che possa esistere una forma di equivalenza o che sia possibile rimanere neutrali, credo, è come accettare che esista un ordine internazionale in cui la legge del più forte può diventare la legge generale e in cui il dominio o lo stato di fatto possano sostituirsi al nostro diritto. Non penso che sia così.

Parlare di pace significa anche parlare di ciò che stanno affrontando le nostre società, che non sono necessariamente in guerra, ma vivono il ritorno della violenza e il momento che attraversiamo oscillando tra la ricomparsa delle rabbie e delle grandi paure, dubitando delle verità che permettono di costruire un progetto comune. Un momento in cui tanti, nelle nostre società, sono immersi in una forma di solitudine che, ne sono convinto, è uno dei grandi drammi dei tempi che stiamo vivendo, un momento in cui in molti dei nostri paesi, e in particolare in Europa, i nostri popoli hanno l’impressione di perdere il controllo delle loro vite, della loro storia, dei loro punti di riferimento.

Dico questo perché questo turbamento, in un certo senso, che viviamo e che attraversa tutte le nostre società, anche quando non sono in guerra, questa inquietudine che rinasce dalla solitudine, da una forma di relativismo che si generalizza, dall’immensità delle sfide che si profilano davanti a noi, quella del cambiamento climatico, quella delle grandi diseguaglianze legate alla nostra organizzazione contemporanea, in fondo, fanno nascere e tornare, anche nella nostra Europa, i fermenti della guerra. Questi fermenti hanno ogni volta le stesse radici: i nazionalismi ottusi che non dobbiamo mai confondere con il patriottismo, ma che sono la volontà di ripiegamento, di esclusione dell’altro e di dominazione di un popolo, di una nazione sull’altra, di rifiuto dell’altro nelle nostre società, ciò che definirei i sogni di purezza che percorrono le nostre società e che riuniscono tutte le semplificazioni del mondo.

Può essere il sogno di una purezza etnica, così come il sogno di una purezza religiosa. Ma sono lì, nelle nostre società, per vendere una forma di assoluto di buona qualità, che consiste nel dire che la soluzione, dinanzi ai dubbi, ai turbamenti, allo sconvolgimento delle coscienze, è quella di tornare a una verità unica e a dei nemici chiari che bisogna combattere. Lo potete constatare: arrivo davanti a voi inquieto. Dunque, dinanzi a queste sfide, quello della guerra in Europa, quello delle guerre che già esistono e dei fermenti che tornano a essere presenti nelle nostre società, cosa possono fare le religioni? Penso che possano fare molto e che i politici che siamo, lo dico nel senso generico del termine, come donne e uomini che hanno deciso di occuparsi della vita della comunità, ne abbiano bisogno.

Primariamente perché tutti noi – responsabili di governi o di stati, responsabili associativi e responsabili religiosi – dobbiamo fare la diagnosi corretta e agire assieme. In seguito, perché se è vero che la politica può fare molto per dare un senso alle cose, è vero anche che oggi, in molte delle nostre società, è oggetto di diffidenza, che è la sorella della constatazione che ho appena fatto, perché né le leggi, né i decreti, né le decisioni che possiamo approvare sono sufficienti. Le anime e i popoli non sono amministrabili. Penso dunque che i responsabili religiosi abbiano un ruolo essenziale perché contribuiscono alla trama delle nostre società, alle relazioni tra gli individui e a un rapporto al tempo lungo. Penso che, nel contesto che ho appena evocato e dinanzi alla situazione che ho descritto, il vostro ruolo sia eminente.

Anzitutto, come avevo detto a più riprese al Collège des Bernardins (discorso pronunciato nel 2018 sulle relazioni tra la République francese e la Chiesa cattolica, ndr), il dono della saggezza, l’impegno e la libertà che ci si attende dalle religioni. In seguito, sono convinto che le religioni e i responsabili religiosi abbiano un ruolo di resistenza dinanzi alla follia dei tempi. E resistenza significa precisamente non giustificare mai, essere presi in ostaggio o sostenere dei progetti politici che asservirebbero o negherebbero la dignità di ogni individuo. Ritengo che, a tale proposito, questo dovere di resistenza sia essenziale. È essenziale perché il rischio è presente e ciò che descrivo sta accadendo. Tutti sappiamo come la religione ortodossa sia oggi manipolata dal potere russo per giustificare le sue azioni. Sappiamo in che modo l’islam, nelle nostre società e anche in alcune nazioni, venga invocato per giustificare dei progetti politici di dominazione.

Sappiamo anche fino a che punto le altre religioni, nelle nostre società, siano state utilizzate nel corso della nostra storia per dei progetti politici di dominazione, di messa in minoranza di una parte dell’umanità e di dominazione dell’altro. Parlo da una Repubblica in cui lo stato è separato dalla religione, ma la religione è nella società e ha un ruolo eminente. Ha il ruolo di non lasciare mai che dei progetti possano, in suo nome, distoglierla dalla sua finalità primaria, o, manipolando i suoi precetti, condurla nella direzione opposta a ciò che difende. Questo dovere di resistenza delle religioni che è ai miei occhi, lo avrete capito, essenziale, consiste nel difendere la dignità di ognuno, nel non cedere mai, in un certo senso, alla pulsione di purezza che alcuni vorrebbero invocare, nel difendere il rispetto, il dovere di prendersi cura dei più fragili e di apportare anche una risposta essenziale che non siamo in grande apportare nelle nostre società: quella delle radici e della salvezza (…).

Infine, penso che le religioni abbiano certamente un messaggio di universalismo da trasmettere. Lo dico da un paese, da una nazione, da un popolo che ha questo in comune con le vostre religioni, che ha sempre rivendicato di avere una parte di universale ed è un motivo di fierezza per la Francia. È francese, a miei occhi, colui che pensa di avere un messaggio universale: è nei nostri geni. Ma cos’è questo universalismo? Anzitutto, non è un discorso, una religione o una verità che dovrebbe dominare il resto del mondo. L’universalismo non è un’egemonia. Ma non è nemmeno l’idea di dialogare con se stessi. L’universalismo è anzitutto un’esigenza verso se stessi. È la volontà di comprendere ciò che facciamo su scala mondiale, di dialogare con gli altri e cercare l’irriducibile parte di universale che è in ognuno di noi. L’universalismo è a mio avviso il miglior antidoto contro il relativismo contemporaneo, il miglior antidoto contro la frammentazione del mondo alla quale stiamo assistendo (…).

Questo universalismo, colui a cui avete contribuito storicamente, filosoficamente e per il quale abbiamo bisogno di voi più che mai, è quello che permette di prevenire l’umiliazione e, conseguentemente, il risentimento. Perché tutte le guerre che vediamo spuntare oggi e le divisioni nelle nostre società nascono proprio da questo. L’umiliazione del più debole, del dimenticato, di colui che non ha digerito la sua storia perché non abbiamo costruito il cammino per farlo, e il risentimento che ne deriva e che giustifica la guerra di domani. È questo il nostro compito se vogliamo veramente essere all’altezza di questo grido di pace. Non basta mettere giù le armi oggi, dobbiamo anche rintracciare in ogni luogo le umiliazioni e le fonti di risentimento. Nascono ogni volta che questo universalismo è dimenticato. Nascono ogni volta che viene stravolto l’ordine giusto che solo questi princìpi universali permettono di costruire.

Preparando questa riflessione libera davanti a voi, mi immergerei nuovamente in un piccolo testo del 1795. È il piccolo testo, in una delle sue edizioni originali, che offrirò domani al papa: il progetto di pace perpetua di Kant. Che nei primi princìpi esposti dice: non può essere riconosciuto come trattato di pace quel trattato che porta con sé le radici di una nuova guerra. Poi lo sviluppa molto meglio di quanto farò io in questa sede: qualsiasi testo, qualsiasi pace che neghi lo spazio dell’altro, anche del mio nemico, non è un trattato di pace. È questa l’immensa difficoltà della pace. Impone questo universalismo che ho appena descritto, un passo verso l’altro e dunque un disequilibrio (…). La pace è impura, profondamente, ontologicamente, perché accetta una serie di instabilità, di scomodità, che rendono però possibile questa coesistenza tra me e l’altro.

Lo dico qui per i nostri amici che vengono da tutto il mondo, l’Europa e in particolare l’Unione europea sono un tesoro da questo punto di vista e noi lo possiamo dire perché abbiamo costruito la nostra Europa su millenni di guerre civili. L’Europa era il continente che aveva la più grande expertise in materia di guerre. Guerre di religione, guerre politiche, guerre egemoniche. E la nostra Unione europea è questo piccolo tesoro di pace perché abbiamo deciso di costruire un equilibrio basato sulla conoscenza e la comprensione dell’altro, sull’assenza di egemonia. Non c’è nulla di più forte nella nostra Unione europea (…). Ci vuole molto coraggio per volere la pace, per preservarla e per restaurarla.

Anzitutto, il coraggio dell’immaginazione, come ha detto egregiamente Andrea. Perché immaginare la pace in tempi di guerra, è la cosa più grande delle cose impensabili (…). Costruire la pace è accettare sempre la parte dell’altro. Non so dunque se abbiamo bisogno di un grido. Di sicuro abbiamo bisogno di un impegno quotidiano, ma indispensabile. E per questo necessitiamo di molto coraggio e so che ne siamo capaci. Il coraggio di costruire la pace e, in un certo di senso, di vivere costantemente alla sua frontiera. Vi ringrazio.


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Sesso: Maschile
15/09/2023 20:30





Olga Makar


Testimone, Ucraina
 biografia

È un grande onore per me poter parlare oggi davanti a voi.

Il 24 febbraio io, come milioni di ucraini, mi sono svegliata per le esplosioni non lontano dalla mia casa e ho capito che stava avvenendo quello che noi ritenevamo impossibile, quello che sembrava potesse avvenire solo in qualche luogo lontano, ma non da noi. L’esercito russo aveva invaso l’Ucraina e iniziava la guerra. In quel momento la nostra vita è cambiata per sempre. Ho preso i miei due piccoli figli gemelli, con mia madre, e sono partita da Kiev verso l’Ucraina occidentale. I miei amici, mio marito sono restati a Kiev. Hanno trascorso le notti nelle stazioni della metro, nei rifugi sotterranei. La sede dei “Giovani per la Pace” della Comunità di Sant’Egidio a Kiev è stata colpita da un missile quando vi erano rifugiate otto persone. È stato un miracolo che siano rimasti illesi.

In questi mesi abbiamo ascoltato molte storie terribili. Sono storie che ci toccano da vicino: nostri parenti o conoscenti sono nell’esercito al fronte, altri vivono nelle città colpite, alcuni sono feriti, altri sono stati uccisi, c’è chi è stato fatto prigioniero o chi è disperso. Facebook si è trasformato in un necrologio. Il dolore è diventato una norma. Ci svegliamo al mattino e andiamo subito a controllare cosa sia esploso durante la notte. Poi risuonano le sirene degli allarmi antiaereo e ci ripariamo nei corridoi interni dei nostri appartamenti o nei rifugi. Abbiamo fatto scorte di acqua e cibo. A cena discutiamo di come prepararsi all’eventualità di un’esplosione atomica.

Un mio zio vive nella regione di Charkiv, nella città di Izjum. Insieme alla sua famiglia è rimasto nascosto per settimane nel sotterraneo della casa, mentre in città c’erano i combattimenti. La sua piccola nipote gli ha detto: “nonnino, portami per favore un po’ di tè”.  È uscito dal sotterraneo ed è andato in casa. In quei pochi minuti un missile ha colpito l’edificio e tutta la sua famiglia è morta: la moglie, la figlia, il genero e i nipoti. Mio zio è sopravvissuto, ma ci ha messo quattro ore per uscire da sotto le macerie. Lui dice: "Non so come vivere adesso, non so cosa fare”.

Questa domanda – “come vivere adesso?” – è la domanda di ogni ucraino.

Quando nei primi giorni della guerra mi sembrava che la mia vita fosse spezzata io allora ho trovato la risposta: possono essere distrutte le nostre case, le città, ma non possono essere distrutti l’amore, la solidarietà, la capacità di aiutare gli altri, i nostri sogni. 

Prima della guerra a Sant’Egidio mi occupavo della Scuola della pace con i bambini. Sono stata a Irpin per portare aiuti: la città ha vissuto molte cose terribili, le case e le scuole sono state distrutte, le persone in strada ti raccontano come hanno perso i loro cari. Ma proprio a Irpin’ abbiamo aperto una scuola della pace. Per molti bambini è diventata il primo luogo dove hanno riso di nuovo, hanno giocato, hanno trovato amici.

Molti trovano risposta alla guerra nell’aiuto agli altri. La Comunità di Sant’Egidio ha cercato di aiutare sin dai primissimi giorni. Abbiamo distribuito cibo per strada ai senza dimora anche nei giorni in cui Kiev era sotto attacco, quando stare in strada era pericoloso. Abbiamo aperto centri per i rifugiati, dove diamo loro cibo, che ci viene inviato con cura e generosità dall’Europa.

Così, passo dopo passo, cuore dopo cuore, ripristiniamo la pace spezzata. Noi resistiamo alla guerra, abbiamo bisogno della pace, noi la sogniamo. Un giorno questa guerra finirà e quel giorno sarà il giorno di una nuova nascita per ognuno. Oggi noi – ognuno con le sue modeste forze – vogliamo avvicinare questo giorno. Io sono grata a ognuno di voi, che cerca le vie per restituire la pace all’Ucraina nella giustizia, per porre fine a questa guerra terribile e salvare le persone che soffrono. 

Matteo Zuppi

Cardinale, Arcivescovo di Bologna, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
 biografia

Desidero ringraziare la Comunità di Sant’Egidio per questa tela di dialogo della quale non finiamo di stupirci perché affatto scontata. È una tela che con l’artigianato paziente della pace la Comunità continua a tessere in un mondo lacerato e così poco capace di pensarsi spiritualmente insieme. È una tela resistente, che unisce credenti di fede diverse, che spesso si sono combattute e che ancora oggi parlano con difficoltà, laici e umanisti. E’ una tela che permette a tanti di scegliere la pace e il dialogo. E anche questo non è poco. Nessuno qui è disoccupato nell’impegno per la pace. La pace è affare troppo importante per essere di qualcuno e ci riguarda tutti. Qui si ricompone quel bellissimo disegno che la violenza e la guerra distrugge. Ogni filo di colore capisce il suo significato proprio solo disponendosi accanto all’altro e l’arte del dialogo – arte di vivere e vivere è arte del dialogo e il dialogo è l’arte di Dio – è proprio questa: metterci insieme per realizzare il disegno magnifico dell’umanità in pace perché Dio ci ha creato diversi non per combatterci o vivere come isole ma per amarci e scoprire chi siamo mettendoci accanto all’altro, scoprendo così la sua e la mia bellezza e utilità. 

Ogni anno questa tela acquista sempre tanti nuovi significati, a volte purtroppo tragici. Il grido della pace nasce perché siamo raggiunti dal grido drammatico della sofferenza, a volte fortissimo e tenerissimo come il pianto di un bambino o chiuso nelle ferite profonde del cuore quelle che durano per sempre. È il grido di aiuto e protezione emesso dal pianto, dal lamento grande di ogni Rachele che piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più (Ger. 31,15). Ecco perché siamo qui: per tutte le vittime che affidano il loro testamento che è la loro stessa vita. Tutte esse volevano e vogliono vivere ed avevano e hanno il diritto di vivere. Siamo qui per le lacrime – che sono sempre uguali per tutti – che scesero dalle loro guance e scendono da chi è sopravvissuto. “Dio conta i passi del nostro vagare e raccoglie le lacrime nel suo otre, le scrive nel suo libro”, recita il Salmo (Ps 56, 9) e noi siamo qui perché questo otre di lacrime, spesso osservato con indifferenza o colpevole incapacità dagli uomini, chiede di essere asciugato dalla pace. Vogliamo leggere i libri delle lacrime, per scegliere la via della pace e non accettare la legge dell’impotenza, del parlarsi addosso perché “tutto è inutile”. Non possiamo dire di non sapere e non vogliamo accettare l’amara legge del non si può fare nulla!  Abbiamo capito nella pandemia che tutto in realtà ci riguarda, che è proprio vero che siamo tutti sulla stessa barca e che l’unica via è diventare Fratelli tutti. Ecco perché vogliamo gridare forte e farlo assieme la parola della vita, senza la quale non c’è vita: pace. Non vogliamo dimenticare. C’è un esercizio di memoria che compiamo assieme, ricordando, capendo, studiando, conoscendo quello che succede. Per arrivare alla pace certo dobbiamo guarire la patologia della memoria dei torti e delle ragioni e guarire noi dalla superficialità, dalla polarizzazione, dagli schemi ideologici.  (FT35). Papa Francesco rileva però che “velocemente dimentichiamo le lezioni della storia”. Il suo auspicio resta che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi” e che non sia stato “l’ennesimo grave evento storico da cui non siamo stati capaci di imparare”. Dopo la seconda guerra mondiale tutti avevano chiaro che la terza sarebbe stata l’ultima. Alcuni poeti si domandavano: “quante volte devono volare le palle di cannone prima che siano bandite per sempre?” o “quante orecchie deve avere un uomo prima che possa sentire la gente piangere?” o “quante morti ci vorranno finché non lo saprà che troppe persone sono morte?” e anche “quando sarà che l'uomo potrà imparare a vivere senza ammazzare”. E noi quanto dobbiamo aspettare? Cercarono una risposta anche dopo la prima guerra mondiale. Quando Papa Benedetto XV disse che «questa lotta tremenda, la quale ogni giorno più apparisce inutile strage” fu visto da tutti come un traditore, complice del nemico. Se lo avessero ascoltato! Non era affatto un appello generico: chiedeva un disarmo simmetrico, il rispetto della autodeterminazione dei popoli, le istanze internazionali erano la soluzione da cercare. Gli uomini di pace sono realisti, non ingenui! Allora auspicò la creazione di una Lega tra le nazioni che potesse garantire la pace in futuro: “Sarebbe veramente desiderabile … che tutti gli Stati, rimossi i vicendevoli sospetti, si riunissero in una sola società o, meglio, quasi in una famiglia di popoli, sia per assicurare a ciascuno la propria indipendenza, sia per tutelare l’ordine del civile consorzio”. E uno dei fini era ridurre, se non addirittura abolire, le enormi spese militari che non possono più oltre essere sostenute dagli Stati, affinché in tal modo “si impediscano per l’avvenire guerre così micidiali e tremende, e si assicuri a ciascun popolo, nei suoi giusti limiti, l’indipendenza e l’integrità del proprio territorio”. Diversi chiesero di abolire la guerra. Altri ripresero le intuizioni di Zamenhof con il suo “esperanto” (“Colui che spera”) per far comunicare fra loro i popoli del mondo e favorire la pace. Non fu sufficiente. Solo dopo i milioni di morti della seconda guerra mondiale ci fu una decisione chiara per dare vita alle Nazioni Unite, lotta contro tutte le ideologie totalitarie e per la difesa dei diritti di ogni persona. Al suo ingresso c’è ancora una statua che raffigura una pistola la cui canna viene chiusa da un nodo. Adesso sentiamo troppo parlare di riarmo. Facciamo nostra (FT 173) in questa prospettiva la richiesta di una riforma perché l’Organizzazione delle Nazioni Unite “possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni” per “assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato”. E perché questo avvenga “occorre evitare che questa Organizzazione sia delegittimata”, per non porre gli interessi particolari di un Paese o di un gruppo al di sopra del bene comune mondiale. Combattiamo la pandemia della guerra come abbiamo combattuto quella della del Covid. Fratelli tutti è il nostro esperanto che ci aiuta a parlare la stessa lingua, a capirci, a liberarci dall’incomprensione che produce tanta paura e violenza. Il tedesco Max Josef Metzger, «prete e martire» ucciso dai nazisti nel 1944 perché predicava la pace affermava: «Noi dobbiamo organizzare la pace, co¬sì come altri organizza la guerra» e in una lettera scritta dal carcere al papa nel 1944 as¬serì: «Se l’intera cristianità avesse fatto una potente, unica protesta, non si sarebbe evitato il disastro?». Ecco perché siamo qui e gridiamo con lui e con tutti quelli che hanno sognato e per certi versi preparato incontri come questo la nostra scelta per la pace. Ad iniziare da noi, perché come diceva don Primo Mazzolari “c’è guerra quando non c’è spirito di fraternità, quando non c’è tolleranza, quando c’è invidia, quando c’è incompatibilità a vivere insieme. Tutte le volte che ci portiamo via un po’ di terra in più, un po’ di pane in più, un po’ di mare in più, un po’ di sole in più, questa è la guerra. E c’è guerra anche quando si manda la gente sul patibolo, quando la si mette al muro”. Non vi può essere pace nel cuore dell’uomo che cerca pace solo per sé stesso. Per trovare la pace vera dobbiamo desiderare che gli altri abbiano pace come noi e dobbiamo essere pronti a sacrificare qualcosa della nostra pace e della nostra felicità affinché gli altri abbiano pace e possano essere felici, chiedeva Thomas Merton. Di fronte alla tragedia della guerra capiamo il rischio che corre oggi tutta la famiglia umana, perché la guerra «non è un fantasma del passato, ma è diventata una minaccia costante» (FT 256). E spaventa. La consapevolezza dopo la pandemia di appartenere a una medesima umanità era aumentata ma (FT30) senza dialogo restano solo le armi.  E dialogo non rende affatto uguali tutte le ragioni, non evita la domanda delle responsabilità e non confonde mai aggressore e aggredito anzi, proprio perché le ricorda bene può cercare le vie per smettere la geometrica e implacabile logica della guerra, che è, se non trova altre soluzioni, al rialzo.   “Non c’è pace senza volontà indomita per raggiungere la pace” dice Papa Francesco, chiedendo energie per “un nuovo linguaggio di pace, per nuovi gesti di pace, gesti che spezzeranno le catene fatali delle divisioni ereditate dalla storia o generate dalle moderne ideologie.” È essenziale scegliere la pace e i mezzi per ottenerla. E dovremmo chiederci: abbiamo fatto tutto quello che potevamo con intelligenza e determinazione? Lo abbiamo fatto con la stessa passione che avremmo se si trattasse dei nostri figli? Sono i nostri figli! Non dimentichiamo, non cadiamo nell’inganno: (FT 261: “Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male”. Anche ogni guerra che continua. Facciamo nostro l’appello di papa Francesco per l’Ucraina e chiediamo che l’impegno per la pace e la giustizia, che vanno necessariamente assieme, trovi in tutti, ad iniziare dagli uomini di governo, delle risposte all’altezza. Dovremo certamente riprendere un discorso forte sul riarmo, per evitare che l’unica logica sia quella militare, chiedere che tutti i soggetti, con audacia, concorrano a tessere la tela della pace. Raul Follereau commentando le cifre dei morti e delle distruzioni dell’ultima guerra mondiale commentava: “Se invece si avesse dedicato a curare, a consolare, a insegnare, una pur minima parte del genio e del denaro che gli uomini hanno sprecato per uccidere e per distruggere, quale benessere regnerebbe oggi sulla terra! Possa la sanguinante e terribile lezione illuminare le coscienze e i cuori! Amarsi o sparire!”. Bonhoeffer, prete evangelico, martire dal nazismo perché lo aveva combattuto a rischio della sua persona, tra le ultime poesie scritte nella cella del carcere dove venne ucciso, scrisse: “Quando il sole mi sarà scomparso vivi tu per me fratello! Fratelli, finché dopo la lunga notte non spunti il nostro giorno, noi resisteremo!”. Ecco il grido e l’impegno di pace.

Haïm Korsia

Rabbino Capo di Francia
 biografia

Carissimi amici, da dove mi trovo, quando ci vedo tutti, sento l'eco del Salmo 133: Com'è bello e piacevole che fratelli – aggiungiamo e sorelle – risiedano insieme. Questa diversità è straordinaria, riflette gli incredibili discorsi che abbiamo appena ascoltato. Egregio Signor Presidente della Repubblica Italiana, volevo ringraziarla per ciò che mi ha offerto come speranza, al di là del fatto di aver letto un'opera notevole che ho potuto scrivere qualche anno fa. E poi, caro signor Presidente della Repubblica francese, la ringrazio per aver ripreso sistematicamente tutte le idee che intendevo sviluppare, così da dire qualcosa di molto profondo con le sue parole e con questa cavalcata di pensiero e di forza che la porta a consideriamo che dobbiamo diffidare di una pace nella quale ci stabiliamo.

Perché abbiamo bisogno di sentire cosa dice il re Davide nei Salmi: Chiedete la pace per Gerusalemme. Perché chiedere la pace e non vivere in pace? Perché la pace è sempre una speranza. È un orizzonte, una ricerca continua, una chiamata. Essere in pace è correre il rischio di non fare più niente, di non muoversi più. Inoltre, la Bibbia specifica che non si augura mai a qualcuno: “vai in pace”, perché fallisce sempre, come nel caso di Assalonne, il figlio di Davide. No, auguriamo che qualcuno vada “verso la pace”, come abbiamo augurato a David. E poi in francese, la lingua più precisa del mondo davanti all'italiano, sappiamo che quando riposiamo in pace, in genere è permanente. Anche se il mio amico arcivescovo di Parigi Laurent Ulrich, che vedo davanti a me, e tutti i cristiani presenti nella stanza ritengono che possiamo svegliarci tre giorni dopo! Tuttavia, in generale, è piuttosto definitivo. Quindi riposare in pace, essere in pace, è pericoloso. E mi è piaciuta, caro signor Presidente, questa idea del confronto permanente che permette di trovare un equilibrio. La pace è quindi dinamica, perché non è solo assenza di guerra. È complementarità, pienezza, integrità. Tutto ciò che la parola Shalom dice in ebraico è gioia e felicità condivisa.

Del resto quando Dio dice, sempre nei Salmi, Io sono Shalom, sono la pace, e chi me lo chiede? Che altro diciamo, che la pace deve essere un grido permanente? L'eco del dipinto di Edvard Munch esposto proprio in questo momento a Parigi, per porre fine all'angoscia della guerra. È questa armonia di movimento che si chiama pace, una sorta di equilibrio delle speranze di ciascuno, un cammino al di sopra dell'odio, del rancore e del risentimento. Nelle massime dei Padri, Hillel il vecchio ci implora di essere discepoli di Aronne, fratello di Mosè. Perché questi amano la pace, cercano la pace e avvicinano tutte le creature a Dio. Questa è anche l’esatta definizione di Sant’Egidio. E se il Talmud assicurava l'immortalità di Hillel l'antico e la sua definizione, il nostro mondo moderno assicura l'immortalità delle idee e dei concetti, e quella della pace in particolare attraverso il Premio Nobel per la Pace. E sarebbe l’onore di tutte le religioni, l’onore di tutti e di ciascuno, di tutti gli amanti della pace, vedere un giorno assegnato questo Premio Nobel a questa comunità così umanista e così universale, magari attraverso la personalità del professor Andrea Riccardi.

Perché alla fine, cari amici, torniamo all'essenziale. Ciò che accomuna tutte le nostre religioni, anche se mi permettete di metterlo non in bocca a un rabbino ma in bocca a San Bernardo di Chiaravalle: la preghiera più bella sarà opera delle nostre mani. E la pace va costruita. Questo è ciò che dice Isaia nel capitolo 2, versetto 4: trasformeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione.

Intanto, gridare alla pace significa anche, ad esempio, avere il coraggio di lasciare tutto per testimoniare, come ha fatto con enorme coraggio il grande rabbino Pinchas Goldschmidt, presidente della Conferenza dei rabbini europei, osando come Abramo lasciare il suo posto in Mosca, il suo Paese, la sua tranquillità, per testimoniare la sua speranza in una pace giusta e non perdonare una guerra ingiusta. Il mio amico rettore della moschea di Parigi, e di fatto tutte le religioni, sanno bene che l'unica guerra da intraprendere è quella contro i nostri impulsi bellicosi, compresi i nostri impulsi interpersonali. Da qui questa idea incredibile che il nostro presidente ha sviluppato sul fatto che, sì, possiamo parlare di guerre nel mondo, guerre in Europa, ma ci sono guerre dentro di noi, nelle nostre società, tra di noi, nelle famiglie, in noi stessi. Inoltre notiamo che, l'ho detto davanti al ministro dell'Interno, che gli agenti di polizia in Francia, quelli armati, si chiamano “guardiani della pace”. E M

Shaykh Muhammad bin Abdul Karim al-Issa

Segretario Generale Muslim World League
 biografia

Presidente,
Autorità,
Eminenze, Eccellenze,
Signore e signori

Mi rallegro di questo incontro fraterno organizzato con la professionalità di sempre dalla Comunità di Sant'Egidio ed esprimo nell'occasione il mio ringraziamento e la mia stima.

Inizio invocando la Pace di Dio su di voi tutti.
La nostra religione islamica ci insegna che Dio è Il clemente, Il misericordioso.

Le religioni celesti ci insegnano inoltre che la creazione dell'umanità procede dallo Spirito, lo Spirito di Dio, e che l'essere umano è stato creato a immagine del Creatore.
Ma, cosa significa ciò?
Cosa significa essere ad immagine del Creatore (sia lodato), visto che Dio ha creato il nostro padre Adamo a immagine Sua?

Significa che l'essere umano gode della dignità e della sacralità del creato, (una sacralità che emana dallo Spirito di Dio). Si tratta di una prerogativa del solo essere umano rispetto alle altre creature.

Ma questa prerogativa dell'essere umano implica un impegno consequenziale e imprescindibile, una specie di tributo inderogabile. Un tributo di fede ed etico, proporzionato alle varie circostanze, più alto che mai in questi nostri tempi.

Nel mondo odierno prevalgono scontri e spargimenti di sangue, battaglie senza fine, che vedono lotta tra i fratelli della stessa fede, fratelli nella vicinanza, fratelli con tante affinità comuni, e in genere fratelli nell'unica umanità che implica, come si è detto prima, la sacralità del creato, la sacralità dello Spirito.

Gli accadimenti della guerra russo-ucraina destano preoccupazione in tutto il mondo, e l'ONU ha preso al riguardo una posizione estremamente importante. Tuttavia occorre un impegno leale, saggio, serio e senza sosta per mettere termine a questo scontro sanguinoso così doloroso.

Noi, in quanto fedeli, invochiamo Dio ogni giorno affinché prevalgano l'intesa e la pace e che i fratelli tornino ad abbracciarsi.

Ebbene sì.
Quando sorgono divisioni in questo nostro mondo, si crea di conseguenza una specie di vuoto dove germogliano idee e interpretazioni negative, che producono a loro volta convinzioni e decisioni talvolta di estrema gravità e complicazione.

Il dialogo pacato, le intenzioni e le promesse leali non solo evitano l'insorgenza di scontri, ma producono chiarezza, intesa, affetto e impegno comune. Un minimo di benevolenza reciproca è indispensabile, mentre l'assenza di benevolenza è sinonimo di rigidità e di ostinazione reciproche e si nutre di presunzione e di spirito di sfida.

Per quanto possano essere grandi i dissensi, non c'è contrasto che non abbia una soluzione se si adoperano il dialogo e il buon senso. Tutti gli alibi possano trovare rimedio. Nelle guerre, al contrario di quanto ci si illude, non c'è un vincitore e uno sconfitto, ma sono tutti perdenti.

L'unica ad uscire sconfitta in questo dissidio pericoloso e complicato è la logica della saggezza, dopo che le nazioni si erano accordate a ratificare un patto internazionale che è la Carta delle Nazioni Unite che recita:

"Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità". Fine della citazione.

Tuttavia, il diritto di Veto, come affermano alcuni costituzionalisti, rappresenta uno degli elementi più antidemocratici nell'ONU, mentre altri ritengono che questo diritto di Veto rappresenti la maggiore garanzia della stabilità internazionale e che esso non sia in contrasto con i valori democratici. Un dibattito giuridico su cui non è il caso dilungarci.

Torno a ribadire:
Dio ci ha creati, in base a questo modello sacro e dignitoso, ed ha seminato nella nostra natura valori umani condivisi. Pertanto, si può dire che le guerre nel nostro mondo esterno sono il risultato di un conflitto interno e della lontananza reciproca, prodotti da un equivoco circa la ratio della nostra vita.

Sfortunatamente,
Quest'avidità e questo desiderio di accumulo, anche a discapito dei nostri valori condivisi e dei nostri fratelli nell’umanità, portano ad un comportamento poco rassicurante che rispecchia l'odierno ordine mondiale, e non promette bene per il futuro dell’umanità, della giustizia e dei suoi valori condivisi.

Ritengo che esistano due ordini di devastazione riconducibili al diffondersi dell'approccio militare nel nostro mondo.

Primo: una devastazione palese della vita, delle abitazioni, del cibo e delle nazioni,

Secondo: una devastazione dello spirito, non soltanto a danno delle vittime della guerra, ma che investe anche coloro che la innescano. Le guerre diffondono barbarie e avidità. E quando l'individuo si concentra sui vantaggi politici ed economici, si dimentica che la vita umana è sacra. Nell’Islam, crediamo al riguardo che la creazione dell’uomo, del suo spirito e della sua natura umana siano sacri, e non cerchiamo un’ulteriore sacralizzazione in divenire. Ci soffermiamo sulla sacralità del creato quella dello spirito.

A questo punto, possiamo chiederci:

La nostra vita rispecchia davvero la consapevolezza che ognuno di noi è un essere umano?

L’essere umano è quella creatura che ha ricevuto la grazia della creazione e del suo spirito sacro. Una creatura responsabile della Terra, incaricata di custodire questo mondo.

Pertanto,

Quale ruolo devono svolgere i credenti in questo nuovo conflitto?  

Qual è il loro ruolo nel forgiare la pace?

La fede sincera nei princìpi appena menzionati, e cioè la fede nei valori comuni, ci fa comprendere in profondità una delle ragioni della nostra esistenza in questa vita.

La fede in un unico Creatore è una dottrina .. Edificare la terra e tutelarla è una responsabilità ... Avvertire questa responsabilità, partendo dalla fede e dalla consapevolezza di dover rendere conto al Creatore, rappresenta l’elemento fondante per far prevalere la prudenza, la tolleranza, il confronto e la motivazione.

Tutto questo nasce dai principi religiosi (nonostante le divergenze dottrinali) e ci indica chiaramente che la religione possiede una valenza incisiva.

Tuttavia alcuni credenti hanno trasformato la religione, con le loro azioni, in una forza ingovernabile oppure inaffidabile, provocando secondo alcuni delle guerre sanguinose lungo la storia.

Abbiamo osservato le conseguenze quando la fede autentica nel Creatore assume un altro significato, e quando si fa uso improprio della verità religiosa alterandola per istigare a compiere atti di violenza.

Il nostro mondo ha patito le conseguenze dei tentativi di manipolazione della religione, e l’umanità ha vissuto distruzioni e aggressioni indicibili.

Il nostro mondo ha sofferto, lunga la storia, a causa di conflitti tra seguaci di varie religioni e civiltà, e a causa dell’aggravamento di divisioni che hanno trascurato i denominatori comuni in grado di garantire la pace nel mondo e la convivenza pacifica tra le comunità nazionali.

Il problema non sta nella religione di per sé, ma nasce dalla lettura che se ne fa, da come viene messa in pratica e dalle distorsione delle sue finalità nobili, al servizio di interessi spregevoli o avidi.

Non credo ci sia uno sfruttamento peggiore di quello della religione, quando impostori parlano a nome del Creatore, e traggono in inganno il loro gregge con le menzogne.

Consideriamo, per esempio, la storia del mondo islamico e quella dell’Europa, per quanto concerne lo scambio delle idee, l’innovazione e la filosofia. Mentre i dotti di Baghdad leggevano le opere di Platone e Aristotele, il Rinascimento che prosperò qui in Italia, si ispirò – in parte – ad artisti ed intellettuali musulmani, e a diversi autori appartenenti ad altre religioni e civiltà.

Questa diversità umana deve essere impiegata a favore della prosperità e dello sviluppo. Così come l’essere umano non può operare da solo, anche le civiltà devono beneficiare l'una dell’altra, ragion per cui l’ONU ha avviato di recente una felice iniziativa con l'istituzione dell’Alleanza delle Civiltà.

È ora che ci rendiamo conto, in quanto esseri umani, che le differenze e la diversità tra di noi fanno parte della natura della vita e sono inevitabili. Questa è la volontà divina, una volontà che vuole solo il nostro bene, al contrario di come la pensano i malvagi. Dio è invero misericordioso con le sue creature.

Noi nella Lega Islamica Mondiale, abbiamo scelto La Mecca come sede, perché (questa città) offre un ampio spazio per i dotti, gli intellettuali e i giovani del mondo musulmano. Ci siamo impegnati a mantenere il rispetto nei confronti di tutti, a portare avanti il servizio a favore dell’umanità, ci siamo impegnati ad amare tutti e ad essere tolleranti verso tutti, a prescindere dai loro errori e dalle loro offese, perché sappiamo che l’uomo serba in sé un seme di bene, che va cercato e reso vivo nella sua coscienza e attivo all’esterno, tramite le buone opere.

Fratelli e sorelle,

Tutelare il nostro pianeta è una responsabilità collettiva e tocca ai leader religiosi ispirare la gente sul piano spirituale, in una maniera sincera ed efficace. Pertanto la loro alleanza religiosa è fondamentale, grazie ai loro denominatori comuni, per diffondere nel mondo intero un messaggio collettivo, forte e dinamico. Questa è anche una responsabilità dell’ONU, l'organismo internazionale che ha adottato uno statuto per garantire la pace nel nostro mondo.

Siamo consapevoli che l’ONU è una comunità di nazioni. Ogni suo cedimento rappresenta un indebolimento della determinazione internazionale e ci rende tutti perdenti. Nulla è più grave della perdita della nostra umanità, una perdita che minerebbe il nostro comune ordine morale ed umano, e sappiamo bene, tutti, quale sarebbe il risultato.

Vogliamo tutti la pace per il nostro mondo, e non vi sarà pace se non attraverso la nostra pace interiore e la nostra comprensione reciproca, saggia e fraterna.

Vinceremo senza dubbio contro ogni violazione dei nostri valori condivisi, per un mondo in cui regnano l’amore, la comprensione e la pace.

Grazie infinite per il cortese ascolto.

Che la pace, la misericordia di Dio e le Sue benedizioni siano con voi


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